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Indice n.68-69
 

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"L'area di Broca", XXV-XXVI, 68-69, 1998-99

SCRITTURA

 

Giovanni R. Ricci

Della scrittura creativa
 

Malgrado il titolo che ho dato a questo mio contributo, più che di scrittura appare corretto parlare di scritture, sia per denotare la specificità d'ogni singola scelta stilistica sia con riferimento a un'antica e spesso vituperata nozione: i generi. È vero che, dal romanticismo in là (e talora anche prima), i generi sono stati sottoposti a critiche insieme giuste e feroci, e che in tempi a noi vicini - fra poesie visive o perfino gustative e performances - i confini si sono opportunamente rotti non solo entro l'ambito letterario ma anche fra un'arte e l'altra: si è assistito insomma a quella che Rita Cirio, ormai vari anni fa, ebbe felicemente a definire "la grande ammucchiata delle arti". I meno giovani fra noi hanno almeno in parte assistito, forse partecipato alla lunga fase della cultura occidentale che ha visto protagoniste le avanguardie, non solo letterarie, fra fine anni '40 e, grosso modo, gli anni '70; al sommovimento - il cui tratto distintivo era la volontà di azzerare i linguaggi artistici del passato - ha fatto seguito, come ognuno ha avuto modo di vedere, un relativo ed esso stesso opportuno ritorno all'ordine, riassumibile, in massima sintesi, sotto l'abusata ma in questo caso utile etichetta del post-moderno. Limitandoci al campo letterario e a pochi tratti esemplificativi, siamo stati spettatori (o coautori) d'una forte rivalutazione della trama come fondamento del narrare, del sostanziale abbandono degli sperimentalismi più estremi in poesia, del deciso riemergere del teatro di parola (senza, ovviamente, che esso sia l'unico tipo di teatro e senza anche che il testo possa più aspirare a un ruolo imperialistico fra i vari codici implicati nell'evento scenico). Del resto, nel corso del Novecento e nelle varie arti, ci si è talmente profusi in sperimentazioni che quanto una volta era in grado di epater le bourgeois appare attualmente al medesimo (purché non al di sotto d'una modesta soglia d'intelligenza e cultura) del tutto normale se non addirittura obsoleto. Considerato dunque che la radicale trasgressione dei codici estetici abituali e la traumatizzazione dei sistemi d'attesa del ricevente costituiscono il segno distintivo di un'avanguardia artistica, ne deriva che un'arte realmente d'avanguardia è oggi (temporaneamente) impossibile.
   In tutto il bailamme che ho sommariamente ricordato - ma anche risalendo alle avanguardie storiche, all'estetica crociana e, se si vuole, allo stesso pensiero romantico - ci si accorge che, nel ripudio delle convenzioni letterarie del passato, non è venuto mai meno il sostanziale convincimento d'un qualche differenziarsi almeno pratico (non prescrittivo) tra generi. Personalmente ritengo conservi una sua utilità la ripartizione storicamente più diffusa, tanto più che tutt'oggi caratterizza la percezione comune del campo letterario: alludo alla distinzione fra poesia lirica, romanzo (e altre forme narrative come l'epica), letteratura teatrale. E' una classificazione assai più descrittivo-statistica che normativa, delimitante aree amplissime e dai confini proficuamente fluidi, cioè tali da consentire, non certo da oggi, 'generi' misti (prose poetiche, teatro di poesia ecc. ). È una tripartizione, inoltre, che - specie se riferita a epoche passate - non esaurisce la totalità del campo letterario (anche se, almeno attualmente, vi si approssima) e che, ovviamente, non nega il fatto che toni poetici (o comunque letterari) possono ritrovarsi pure in testi non di natura primariamente estetica. Detto questo, come avrò modo di chiarire, penso che poesia da un lato, narrativa e letteratura drammatica dall'altro, tendano solitamente a differenziarsi per le parzialmente diverse modalità psicologiche implicate nella generazione del testo. I tre generi, inoltre, sono distinguibili, a livello di ricezione del testo, per la presenza o meno in esso dell'io autoriale e della voce narrante: in sintesi, nella poesia vi è solo l'io autoriale; nella narrativa, è possibile la presenza esplicita sia dell'io autoriale sia d'una voce narrante; nella letteratura teatrale non compare in genere né l'io autoriale né una voce narrante. Un altro tema che prenderò brevemente in esame concerne due funzioni della scrittura creativa, l'una volta al recettore del testo, l'altra inerente al solo autore: funzioni, intendo, nel senso di 'scopi'.
   Eco - uno studioso che avrò ripetutamente occasione di menzionare - ha spesso ricordato i differenti principi compositivi che tendenzialmente distinguono la poesia dalla prosa creativa: la prima risponde alla regola "verba tene res sequentur", la seconda all'opposta regola "res tene verba sequentur". Il fondamento del fare poetico è nel possesso del (o nell'esser posseduti dal) linguaggio; mentre alla base del fare prosa narrativa dovrebbe (in genere) esservi la padronanza di un intreccio. Il fatto è che, in certo senso e salvo rare eccezioni, il poeta - intendo il poeta lirico, ovviamente (quanto dico, perciò, non vale, poniamo, per la Commedia dantesca) - parla sempre essenzialmente di sé, anche quando di fatto parla d'altro: questo altro, infatti, non sussiste se non come fortemente investito dall'individualità dell'autore. Questo meccanismo, particolarmente intenso e per così dire costitutivo in poesia, è presente certo in ogni opera d'arte ed anche, nella vita di tutti i giorni, in ogni nostra percezione o descrizione del mondo, processi che - secondo le più aggiornate teorie psicologiche - sono da intendere come nostre costruzioni personali e non come semplici riflessi della realtà esterna: costruzioni, tuttavia, che dicono qualcosa (spesso molto) anche del mondo in sé (nella misura in cui questo è ontologicamente possibile), in quanto se ciò non accadesse la comunicazione interpersonale si farebbe verosimilmente impraticabile. Immaginiamoci una società di poeti, ognuno con un proprio specifico stile, che comunichino fra loro unicamente in poesia: sarebbe in grado di funzionare? La poesia pone assolutamente in scena l'io dell'autore (intendendo col termine "io" la totalità, conscia e inconscia, della psiche): egli dunque s'identifica coi suoi eventuali personaggi? E con chi s'immedesima invece il narratore? È fin troppo famosa l'asserzione di Flaubert "Madame Bovary c'est moi" ed è una sorta di luogo comune che il narratore metta necessariamente qualcosa di sé nei suoi personaggi identificandosi con loro. Tuttavia - riprendendo, pur senza aderire al loro contesto teorico di fondo, ed aggiornando due concetti freudiani - il nostro rapporto con gli altri, siano essi reali o immaginari, persone o personaggi, può svolgersi secondo due diverse modalità, spesso comunque attive simultaneamente: l'identificazione e la relazione oggettuale. In sintesi, nell'identificazione si vorrebbe essere o ci si sente simili all'oggetto; nella relazione oggettuale percepiamo l'oggetto come altro da noi e verso di esso volgiamo i nostri impulsi motivazionali (sessuali o amicali paritetici o protettivi o desiderosi di protezione o competitivi ecc.). Ho detto che i due processi sono non di rado compresenti in uno stesso soggetto, come nel caso di x che desidera sessualmente y e insieme avverte di avere (o lo desidererebbe) caratteristiche di y non inerenti alla sessualità, ad esempio - per restare in tema - l'attitudine creativa. Ora è evidente che, nel costruire un personaggio, il narratore attinge, con modalità spesso inconsapevoli, al proprio repertorio di esperienze reali e fantasticate, nei loro aspetti sia cognitivi che emozionali, ma non è affatto detto che debba necessariamente proiettare sul personaggio medesimo tratti specifici della propria organizzazione psicologica. Così, nelle lunghe vicende della stesura dell'Ulisse, Joyce si è in qualche misura immedesimato con Stephen Dedalus (meno che nel Ritratto dell'artista da giovane) e con Leopold Bloom, non con quel fisicissimo simbolo della natura femminile che è Molly Bloom. E, per fare un esempio teatrale, solo un lettore delirante potrebbe pensare che Molière, nel Misantropo, s'immedesimi (in parte) non solo con Alceste e con Filinte ma anche con Selimene, la cui figura si ispirava - sia pure non alla lettera - alla realtà biografica di sua moglie Armande. Questo, sia chiaro, vale anche nella poesia: per limitarmi a un semplice esempio, la "pasturella" che in un suo testo Guido Cavalcanti, guardando qui alla Francia e non al dolce stil novo, immagina di trovare "in un boschetto" è senz'altro un oggetto del desiderio ed egli non anela a esser lei (il che sarebbe stata una dirompente e storicamente impensabile infrazione alle convenzioni del genere) ma piuttosto di far con lei, che si dimostra subito consenziente e cooperante, "sott'una fraschetta foglia", quello che le noiosissime donne angelicate non avrebbero mai concesso. Eppure quest'erogena fanciulla non esiste fuori dell'esplicita presenza dell'io autoriale. Come osservava Hegel nell'Estetica, l'animo del poeta lirico prende "come unica forma e meta unica l'esprimersi del soggetto" (tr. it., Torino, Einaudi, 1976, p.1160). Diversamente, in campo narrativo ed anche in quello teatrale, il mondo delineato e gli individui che vi si muovono conseguono una sostanziale autonomia rispetto all'autore che deve egli stesso, nella fase compositiva, adattare gli eventi raccontati all'universo che ha costruito (Pirandello, estremizzando questo dato, arrivava, com'è noto, a concepire teosoficamente i personaggi come entità fantasmatiche scissesi dalla fantasia dello scrittore). È per questo che si possono leggere con piena soddisfazione, abbandonandosi alle dinamiche dell'intreccio e all'identificazione o relazione oggettuale nei riguardi dei personaggi, racconti o testi teatrali anonimi - poniamo, per far un paio di esempi, I viaggi di Sindbad o Arden of Feversham - mentre l'indubbio piacere del testo che può darci la lettura d'un buona poesia (lirica) di cui non si sappia l'autore, è in qualche modo offuscato da un senso di mancanza: e ciò, malgrado che il bravo lettore, come dirò meglio più avanti, debba attenersi al testo e prescindere dall'autore concreto se non per quanto è deducibile dal testo medesimo. Consideriamo questi versi, tradotti da una lingua diversa dalla nostra: "Ah, vita. Più sottile di una tela di ragno. / Più impalpabile di ogni altra cosa. / Forte come una ragnatela al vento / che ciondola pendendo e chissà come sopravvive / strinata al calore dei fuochi che danzano / Ah, vita. In qualche modo resiste". Forse queste poche righe possono non spiacere: in tal caso, non avvertiamo una lacuna, in certo senso inscritta sulla superficie testuale, nel non sapere chi le ha prodotte? Un uomo o una donna? Della nostra epoca o del passato? Poniamo invece di trovare, durante un lungo viaggio in treno, soli nello scompartimento, un romanzo lasciato lì da qualcuno. Mancano la copertina e il frontespizio. Con qualche circospezione (non si sa mai in che mani può essere stato), lo prendiamo, lo apriamo e iniziamo a leggere. È un ottimo giallo, la trama ci coinvolge completamente, immedesimazioni e relazioni oggettuali si attivano con piacevole facilità. In un paio d'ore arriviamo all'ultima pagina. Certo, abbiamo la presunzione di ritenerci persone di cultura e dunque ci piacerebbe sapere chi è l'autore che - ci secca confessarlo - non abbiamo riconosciuto. Ma il godimento del testo, il divertimento dell'intreccio c'è stato. E, allora, dell'autore come individuo concreto chi se ne importa? A questo punto chi mi sta leggendo sarà forse curioso di sapere chi ha scritto i versi che ho sopra ricordato: sono - non sto scherzando - di Marilyn Monroe.
   Ho citato prima la scrittura teatrale: per essa vale a maggiore ragione quanto ho detto per la narrativa. Se nella poesia vi è essenzialmente l'io dell'autore, nella narrativa - oltre ai personaggi - possono comparire sia l'io autoriale (vedremo più avanti in che senso debba parlarsi di autore) sia l'io della voce narrante (entrambi corrispondono a quello che Szondi chiama io epico) mentre, nel testo teatrale, l'autore e anche la voce narrante appaiono assenti essendovi di regola solo i personaggi. Nella narrativa è legittimo che l'autore Modello (v. oltre) o, talora, concreto faccia, per così dire, capolino dal testo dicendo a chiare lettere la sua: per esempio, nell'Introduzione ai Promessi sposi, Manzoni in quanto voce narrante finge d'essere lo scopritore dell'immaginario manoscritto seicentesco di cui ha dato una lunga 'citazione' in apertura di testo ma anche non si astiene da mostrarsi per come realmente era il Manzoni concreto: così, quando la voce narrante dice di aver pensato "di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto", è anche Alessandro Manzoni a parlare alludendo a quel problema della lingua che andava ossessionandolo. A maggior ragione ciò accade nei racconti e romanzi almeno in parte a sfondo autobiografico (va da sé che in casi simili risulta assai spesso difficile e altrettanto spesso inutile, per il lettore, tentar di discriminare il ricordo dall'invenzione). Nel testo teatrale, invece, troviamo unicamente battute e didascalie. Anzi, le battute possono essere assenti, come in certe sintesi futuriste o negli Atti senza parole beckettiani o in molti happenings, mentre, anche in un testo teatrale apparentemente fatto solo di battute, vi saranno comunque elementi di didascalia quali i nomi dei personaggi e/o dei segni grafici (virgolette, lineette) indicanti l'avvio delle battute stesse. Anche nella storia della letteratura teatrale, però, troviamo presto casi in cui sicuramente l'esplicito punto di vista dell'autore compare. Mi riferisco, certo, alle commedie di Aristofane ma, in altri periodi, quando ciò avviene è probabile che sia nei prologhi, ossia in una sezione dello spettacolo formalmente esterna alla vicenda rappresentata: pensiamo a quelli delle commedie di Terenzio o a molti prologhi della commedia rinascimentale fra cui in primo luogo quello marcatamente personalistico della Mandragola di Machiavelli. Del resto, nella stesso teatro di Aristofane, è vero che in ogni momento la voce del poeta può, attraverso i personaggi, farsi sentire ma, in diverse sue commedie, vi è una parte specifica - la parabasi - in cui l'azione scenica è sospesa e il coro si rivolge direttamente al pubblico consentendo in massimo grado al poeta di esporre, per bocca dei coreuti (o del solo capocoro), il proprio pensiero. I prologhi ed anche gli epiloghi - si pensi agli Annunci ed alle Licenze della Sacra Rappresentazione medievale - sono inoltre fattori narrativi che presentano lo spettacolo come tale. Al contrario il dramma postrinascimentale ubbidiente alle regole pseudoaristoteliche - in particolare la tragedia classicheggiante francese (Corneille, Racine) mentre si muove in piena libertà il teatro elisabettiano - si configura come assoluto, non riferendosi al mondo esterno ad esso, né a un prima né a un dopo: è la rappresentazione di un evento che si risolve in se stesso ed in cui dunque né l'io autoriale né una qualche istanza narrativa - che si rapporti alla trama dal di fuori - sono presenti. Dagli ultimi decenni dello scorso secolo la situazione, rispetto al differenziarsi del dramma dai generi narrativi, in certa misura cambia. Szondi ha reso noto, pur non inventandolo, il termine "io epico" che indica l'io autoriale e la voce narrante, fattori che egli peraltro non distingue e che sono ad ogni modo costitutivi nell'epica, nel romanzo e negli altri generi narrativi: ebbene, nella nostra epoca, come ha appunto evidenziato Szondi nella sua classica e fondamentale Teoria del dramma moderno - dopo l'attacco alla tradizionale forma drammatica da parte di autori quali Ibsen, Strindberg, Maeterlinck, Hauptmann - elementi epici sono in seguito entrati a far parte essenziale di quella stessa forma e l'io epico è addirittura sceso in scena senza infingimenti incarnandosi nel Regista-demiurgo di Piccola città di Thorton Wilder. Attualmente non esiste alcuno standard - se non il criterio della presenza (sia pure minimale) di didascalie e, in genere, di battute - riguardo al come debba essere un testo per il teatro: passato da tempo di moda il teatro epico brechtiano, soluzioni epicizzanti - che, già a livello testuale, prevengano l'eventualità dell' illusione scenica - sono possibili tra le varie altre. Quanto in specifico all'io autoriale, un caso in cui ai nostri giorni può capitare di vederlo direttamente in scena è costituito dal teatro dei comici (quando scrivano essi stessi i loro testi e magari li pubblichino) e lo spettacolo capolavoro in quest'ambito, ma certo non riducibile a tale tipologia, è Mistero buffo di Fo, uno dei più alti testi della letteratura teatrale contemporanea. In teatro, peraltro, il testo è oggi spesso solo una componente fra le altre implicate nella messinscena (dall'espressione corporea dell'attore alla scenografia, dai costumi alle luci, dalle musiche ai rumori di scena) e non quello primario; inoltre, anche quando si mettono in scena dei classici, lo stile registico determina in modo radicale le connotazioni che il testo va a assumere sul palcoscenico ed è anzi pacifico che il regista medesimo possa, volendo, effettuarvi modifiche quali soppressione di personaggi, espunzione di battute, spostamento di scene; in molto teatro di ricerca, poi, il testo viene appositamente elaborato durante la preparazione dell'allestimento o, se preesistente, è solo un pretesto, ossia un materiale di cui disporre e su cui, se del caso, intervenire anche pesantemente (con tagli, riscritture ecc.) ai fini della costruzione dello spettacolo (ricordiamo en passant che un atteggiamento formalmente analogo - robuste sforbiciate, modifica dei finali ecc. - si è spesso avuto nel teatro inglese, dalla Restaurazione a parte dell'Ottocento, nei riguardi delle opere shakespeariane).
   Tornando alla questione della (relativa) autonomia del testo narrativo o teatrale e della (relativa) non-autonomia del testo poetico, essa può essere meglio chiarita facendo riferimento a un'ottica psicologica: è ovvio che nel fare poetico, specie quando non siano in gioco rigide regole metriche, è soprattutto coinvolta - anche se non esclusivamente e non direttamente - l'area psichica più profonda del soggetto, il suo inconscio; mentre la narrativa e il teatro - più in generale, tutta la fiction - implicano sì, sempre indirettamente, contenuti e dinamiche inconsci ma è essenzialmente la razionalità a costruire mondi possibili in cui accadono certi eventi. Perché è proprio questo che caratterizza la fiction (letteraria, teatrale, filmica, televisiva ecc.), il raccontare trame ambientate in mondi più o meno differenziati dal nostro; se invece il mondo descritto è totalmente simile al nostro e se i fatti che vi si svolgono sono del tutto identici a quanto è realmente accaduto (o sta accadendo) non si avrà fiction ma cronaca o storia (un caso di testo creativo non di fiction è quello di taluni diari). I contenuti degli intrecci della fiction possono essere naturalmente i più svariati ma a mio avviso tutte le storie finora raccontate in racconti e romanzi, testi teatrali, opere liriche, films ecc. hanno in fondo narrato - e credo continueranno a farlo nel nuovo millennio - un'unica storia nelle sue innumerevoli varianti: quella del conflitto fra i desideri consci e inconsci degli individui e gli ostacoli oggettivi (Dio o gli dei, il Fato, i nemici, la legge, le regole e convenzioni sociali, i limiti del corpo, gli arbitri di qualcuno) o intrapsichici che si oppongono alla loro realizzazione.
   La scrittura creativa, naturalmente, è anche una forma di comunicazione, ferme restando le eccezioni di chi scriva solo per sè chiudendo in ben muniti cassetti i propri lavori. In questo caso, perché la decisione autoriale si configuri come non solo in certa misura patologica (salvo il caso dei diari, che in genere però sono più cronaca che arte) ma anche veridica, bisognerà che l'autore provveda per tempo a distruggere le proprie carte poiché il lasciarle, passando ai più, nei suddetti cassetti rivelerebbe l'intenzione (non importa se conscia o meno) di farli scoprire da qualcuno. Se il testo creativo (poetico, narrativo, teatrale) tende dunque alla comunicazione, ci si può chiedere a chi si rivolga. Certo, solitamente, ai lettori (venticinque o più) o ad un pubblico (nel caso dei testi teatrali che, in quanto tali, quasi sempre puntano anche o, talora, esclusivamente ad esser rappresentati). Qui giunti conviene introdurre una differenza metodologica distinguendo un approccio psicologico interessato alla genesi creativa dei testi, per il quale possono risultare assai utili dati extra-testuali inerenti all'autore, ed un approccio semiotico, per il quale l'interpretazione di un testo - da parte sia d'un normale lettore sia appunto d'uno studioso semioticamente orientato - deve prescindere da qualsiasi dato che il testo in qualche modo non implichi. La semiotica testuale ha elaborato, in particolare per i testi narrativi ma programmaticamente per tutti i testi (inclusi quelli non letterari), il concetto di Lettore Modello, che fa da pendant a quello di Autore Modello. L'Autore Modello è l'entità, costruita dall'autore concreto e diversa dalla voce narrante, che, spesso senza rivelarsi esplicitamente, conduce il lettore avanti nella lettura-interpretazione del testo; il lettore che il testo prevede per essere correttamente interpretato è il Lettore Modello alle cui abilità i lettori empirici devono cercare di approssimarsi. Entrambi i termini (Autore e Lettore Modello) sono stati coniati da Eco e rappresentano - come ho detto - strategie testuali, ovvero utili astrazioni e non individui concreti: l'Autore Modello ha comunque qualche ovvia parentela con l'autore concreto ma in semiotica ho ricordato come si ritenga necessario prescinderne. Si danno, tuttavia, a mio parere, alcune eccezioni: non sempre il lettore empirico può guardare all'autore solo come Autore Modello, non sempre l'autore (empirico e Modello) elabora il suo testo per un'unica tipologia di Lettore Modello. Quel lettore, infatti, che conosca personalmente o abbia conosciuto - non superficialmente - l'autore come può prescindere da questo dato? E forse che per questo motivo egli non può approssimarsi, magari meglio di chiunque altro, alla funzione ideale di Lettore Modello? Personalmente sospetto - per fare un esempio fra i molteplici - che la fanciulla cui Saffo, in una sua celebre ode, scrive: "Quello mi pare somigliante ai numi, / l'uomo che si pone di fronte / a te e all'orecchio ascolta quello che dolce gli sussurri / e come amorosa ridi" ecc. (trad. di Francesco Della Corte), sia stata (avrebbe potuto essere) la migliore lettrice di questo stesso testo, una destinataria privilegiata che - conoscendo personalmente l'autrice e avendo condiviso con lei fondamentali esperienze - era capace di intendere il più possibile le denotazioni e connotazioni di quella composizione. E, restando ad esempi della grande poetessa greca, la nemica cui scrive "Morta giacerai" ecc. doveva dedurre al meglio, dalla lettera del testo, le implicazioni profonde di quell'odio che le era rivolto. Allo stesso modo un autore può scrivere per più destinatari, prevedendo (o non escludendo) che il suo testo abbia diversi livelli di comprensione. Eco ammette, in effetti, che i testi - specie quelli a funzione estetica - abbiano due Lettori Modello: quello ingenuo, che si limita a riempire di significato la manifestazione lineare del testo, e quello critico che "cerca di spiegare per quali ragioni strutturali il testo possa produrre quelle (o altre alternative) interpretazioni semantiche" (I limiti dell'interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p. 29). A mio avviso, però, come ho detto e come cercherò di chiarire ulteriormente, può esservi dell'altro, anche in senso strettamente semiotico. Mi si perdoni il raptus narcisistico ma farò qui un esempio personale. Nel n.13 (gennaio-aprile 1978) di Salvo Imprevisti (dedicato al tema "Poesia/poetica/premi") ho pubblicato un testo poetico ("The Back of Beyond"-A) ove, a un certo punto, si poteva leggere: "Gli stivali di Dobracinsky / hanno mille leghe da compiere, per il solstizio / d'estate". Ebbene, la destinataria privilegiata di questo testo e degli altri due pubblicati sullo stesso numero era la C. cui erano esplicitamente dedicati e che già li conosceva prima della loro pubblicazione; i lettori della rivista venivano, anche in termini di comprensione possibile, in secondo piano. Lei sapeva bene che gli stivali di Dobracinsky non erano le forse magiche calzature d'un fantomatico personaggio senz'altro mai sentito nominare dai normali lettori (interpretazione comunque legittima anche se formalmente erronea); lo sapeva bene perché gli stivali erano suoi e le erano stati fabbricati, anni prima, da un vecchio artigiano d'origine polacca, Dobracinsky appunto, che aveva il negozio in un quartiere (non mi ricordo quale) di San Paolo del Brasile. Lei, dunque, non Dobracinsky, avrebbe avuto ancora "mille leghe da compiere" portata dai suoi stivali. C., insomma, poteva intendere quel testo - non solo per il particolare di Dobracinsky - meglio di ogni altro e a questo primario fine comunicazionale, quel testo era stato elaborato. Tutto questo ritengo non riguardi solo la psicologia della generazione d'un testo né che, dal versante del lettore, rappresenti più un uso personale che un'interpretazione. In termini semiotici, certo, il testo è da intendersi come totalmente autonomo dall'autore concreto che l'ha prodotto: ma nel caso che ho fatto è a livello proprio del testo e delle sue possibili interpretazioni che è inscritto un effetto di senso previsto come totalmente attingibile da una singola persona.
   Ammetto la forse maggior probabilità che casi come quello che ho immodestamente menzionato possano avvenire nei testi poetici, in genere più brevi d'un testo narrativo o teatrale, più (strutturalmente) investiti dall'io dell'autore, più polisemici. È però perfettamente immaginabile un narratore o un autore teatrale che, per esempio nel costruire un personaggio, vi immetta volutamente elementi che solo una specifica persona può intendere pienamente: se tale persona sarà in grado di capire meglio di altri quel personaggio, non credo possa parlarsi di interpretazione semioticamente aberrante. Prendiamo un caso riguardante proprio Eco, sia come semiotico che come scrittore, e da lui stesso raccontato: uno dei protagonisti de Il pendolo di Foucault, Casaubon, che fra l'altro assolve al ruolo di voce narrante, è innamorato - per un certo tratto della fabula - d'una ragazza brasiliana dal nome spagnolo, Amparo. Lo scrittore non sapeva perché le avesse dato quel nome finchè un giorno, mesi dopo la pubblicazione del libro, un amico gli ricordò una vecchia canzone cubana ove si parlava di un monte Amparo e gliene accennò il motivo.
   "Santo cielo" scrive Eco "Conoscevo benissimo quella canzone, anche se non ne ricordavo una sola parola. La cantava, a metà degli anni cinquanta, una ragazza che veniva dai Caraibi, di cui ero innamorato a quei tempi. Non era né brasiliana, né marxista, né nera, né isterica come Amparo, ma è chiaro che, nell'inventare una ragazza latino-americana, ero riandato inconsciamente a quell'altra immagine della mia giovinezza, quando avevo la stessa età di Casaubon. Quella canzone certamente mi è tornata alla mente, ed ecco spiegata l'origine del nome Amparo, che credevo di aver scelto per caso. Come ho detto, il vantaggio di questa storia è che essa è del tutto irrilevante per l'interpretazione del mio testo. Per quanto riguarda il testo, Amparo è Amparo è Amparo è Amparo" (Op. cit., p. 123).
   Concordo con queste considerazioni e col loro finalino alla Gertrude Stein, col fatto cioè che questa vicenda ha a che fare con la psicologia della creatività autoriale - ovvero coi meccanismi psicologici posti in atto da Eco nello scrivere il suo romanzo - e non con una semiotica del testo: quella ragazza caraibica degli anni '50 era infatti molto diversa da Amparo e la soddisfazione che ella forse avrà provato, se ha letto il romanzo, nell'accorgersi di non esser stata dimenticata, poggia su cognizioni extra-testuali, nel senso che per una corretta interpretazione del personaggio questa storia è totalmente inutile. Ma poniamo che Eco, volutamente e scrivendo di fatto un altro romanzo, avesse costruito Amparo sul preciso modello della ragazza caraibica: in tal caso non avrebbe potuto egli escludere che quest'ultima (se dotata d'una immagine non nebulosa di sé) o chiunque altro l'avesse ben conosciuta, sarebbero stati in grado di cogliere al meglio la psicologia del personaggio. Il testo, insomma, avrebbe previsto (o non escluso) una lettura privilegiata (se non altro per quanto attiene alle situazioni che implicano Amparo).
   Oltre allo scopo di comunicare con qualcuno, almeno un'altra funzione della scrittura creativa è, infine, da menzionare: quella autoterapeutica. L'atto dello scrivere creativamente, nel suo possibile oscillare fra piacere e sofferenza, consente di non reprimere le proprie emozioni, di entrare in rapporto con aree (relativamente) profonde della nostra psiche e in definitiva di conoscersi meglio, risultati che potrebbero essere gli stessi d'un buon itinerario psicoterapeutico (esperienza, quest'ultima, che non può però esser sostituita dai processi creativi quando la sofferenza psicologica dello scrittore sia particolarmente intensa). Questa modalità psicologico-creativa, volta ad ascoltare le parti meno superficiali e le componenti emozionali della nostra psiche, non è però posta in atto da tutti gli scrittori: citerò per l'ultima volta (in questa sede) Eco ricordando quanto egli ha rivelato nelle Postille al Nome della rosa (apparse per la prima volta in "Alfabeta", n. 49, giugno 1983). Lo scrittore filosofo ha ammesso di aver cercato, durante la stesura del suo primo romanzo, di distanziarsi il più possibile dai suoi personaggi ma anche di aver probabilmente trasferito ad Adso molti dei propri turbamenti adolescenziali: il che è accaduto, scrive Eco, "certamente nelle sue palpitazioni d'amore (però sempre per interposta persona: infatti Adso vive i suoi patimenti d'amore solo attraverso le parole con cui i dottori della Chiesa parlavano d'amore). L'arte è la fuga dall'emozione personale, me lo avevano insegnato sia Joyce che Eliot. La lotta contro l'emozione è stata durissima". Ora, è vero che lo scrittore che aspiri a scrivere un buon testo non deve - condizione necessaria e non sufficiente - farsi travolgere dall'emozione ma a scongiurare questo rischio coopera l'attenuarsi (più o meno) delle passioni nel passaggio dalla nostra mente alla superficie della pagina (o allo schermo del computer) attraverso l'atto materiale ed esternante della scrittura. Ed è altrettanto indubbio, come ho già detto, che il narratore e l'autore teatrale sono in primo luogo impegnati nella costruzione cognitiva d'un mondo (che peraltro potrà anche somigliare moltissimo al nostro) e d'un intreccio. Tuttavia, se "fuga dall'emozione personale" significa aspirare alla condizione ideale d'una totale freddezza in fase di ideazione e poi di stesura d'un testo, allora un mondo in cui ciò fosse possibile, sarebbe anche un mondo ove l'arte non è mai nata.

 


 
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