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L'Area di Broca
Indice n.68-69
 

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"L'area di Broca", XXV-XXVI, 68-69, 1998-99

SCRITTURA

 

Sara Marabini

Leggevo i muri

Lessi presto la scrittura degli altri. Accedevo alla lingua, al ritmare dei poeti, e non ne comprendevo, come più tardi, il disinganno di un discorso sterile, la forma di una intimità non detta, il rigurgito di un vissuto che non avvicinavo, la densità di un verso e raccoglievo sporadici sprazzi di luce in una vita a cui tendevo ancora ottusa, come il neofita che non sa e non si conosce la fede che conclama. Poi la malattia mi rattrappì più in me stessa e scorsi i fari dei poeti e dissi piccole e lievi cose su un canto di Virgilio che mi parve tanto grande e per la prima volta un facitore di lingua. Vagai nella vita come inesistente convogliata dagli altri, appesa al filo del mio lavoro di insegnante, dove poche erano le mie parole e breve il mio discorso. Leggevo i muri viaggiando come i libri ma nulla ora mi era detto, se non il colloquio con veri amici che dicevano aver viaggiato con me nel mio frammentato racconto. I libri, i viaggi erano le mie oasi, nell'isola che la malattia si accaniva a conservare nel deserto fumoso delle voci presenti e pur lontane. Gli altri erano assenti o pericolosamente presenti, pronti ad isterilire, a negarmi l'assunto di qualsiasi realtà. Conobbi l'amore e il piacere dell'amicizia e i libri erano gli altri che mi parlavano ed io scoprivo. L'amicizia dei grandi mi esortava a tenere il filo che io mantenevo tenace con gli altri, ausilio alla mia esistenza povera e ben poco sapevo di me e meno di loro.
   La terapia che mi aiutò a conoscermi, subentrò improvvisa e salì fino a distruggerlo quell'ordine ormai costituitosi fra me e gli altri, dove cercavo di mantenere me stessa e l'amicizia che vivevo scevra da quanto mi circondava, e li amavo e li sentivo ossigeno per la mia vita.
   Scrivendo della poesia di Virgilio ai corsi abilitanti, la commissione rifletté sulla scientificità del mio discorso e più tardi in terapia con quell'annuncio, scoprii che sapevo scrivere. Sulla prosa di Ungaretti a Urbino provai la mia prosa sulla liricità di quella ungarettiana. E scoprii che potevo comunicare per scrittura me stessa agli altri. Scesi lenta sui ricordi della mia infanzia e le parole riecheggiavano i fatti più salienti assopiti dal tempo. La scrittura mi rivelò me stessa. Incontrai nel mio percorso tutti gli scritti editi di Margherita Duras, ne capii la malferma dizione e avvertii la distanza da me: c'era un selvaggio accanirsi sul tragico vicino della guerra come per esso e in esso sopravvivere sull'umanità che la scrittura denunciava.
   Io venni a capo, negli episodi salienti della mia magra esistenza, di tutte le distorsioni sterili che avevano riempito il mio passato, sovrapposte dagli altri. Dentro, le tante lingue degli altri, ormai digeste venivano dimenticate presenti nella parola viva che dava forma al ricordo. Nacquero gli uomini, i personaggi della mia vita e la scrittura condivideva la tristezza di quanto non avevo potuto vivere. Quiete e pace trovavo nello scrivere che dicevo la non condivisione mia alla malcelata ostilità degli altri o alla condanna scoperta, la mia indenne proposta sempre rinnovata e il mio darmi generoso, quasi altro non mi fosse concesso di fare. La parola usciva netta a volte faticosa e i margini sintattici pareva fuorviassero il senso e lei li interrompeva.
   Solerte è la parola a parteciparmi questa danza di liberazione. Densa è la comunicazione che porta in sé la parola. Lo stare mio muto, nel manicomio e altrove, balzello presente che mi veniva dal passato, pareva sciogliersi lento e trovare primo oggetto di salute la comunicazione.
   La parola che lieve esce per avere da tempo partecipato al crogiolo dell'espressione. Mi partecipa di quella ingenuità che carica di esperienza negativa sembra aver mantenuto integra la speranza di una vita sepolta e non attuata. C'è una apertura a se stessi che la parola rimanda, chiarore intinto nel buio del delirio. Come acqua che rode la sua via, essa esce e dà corpo alle immagini che il ricordo pregno del dolore spinge la memoria a ritrovare. L'emozione rivissuta svela l'immagine e la fa ricca di senso. E la poesia traluce rara qualche volta. Sorella d'ingegno la scrittura nutre là dove si concede. Inesperta la mano tacque e sul principio tutto il rigurgito che sfociò nella scarna parola ossequiante al dialogo e alla regola che frantumò inesperta di un male che le sembra ignoto. Spartisce il male sofferto con l'altro e accumula consolazione. Vive in se stessa e nel poco di vita partecipato. Solleva l'animo e mai turba il disagio del vero. La parola che vuole conquistarsi a se stessa disegna l'ardua fatica a volte non soluta. Mai vieto è il cammino che descrive nella mente la memoria che preme. Privata dell'immaginazione e della fantasia risale lo scoglio contenuta dello spoglio e arido vissuto. Né l'invoglia il lamento, l'agra rivalsa e il lugubre strazio o il canto di morte. Lieve sorride a se stessa il vano subire e il dolore. E tutto il passato s'acqueta. Curioso è l'animo dello scrittore per chi lo legge: vorrebbe scorgere in ognuno quanto di lui passa nelle sue parole e come le contiene.
   Pullula la realtà che descrive di sgorbi nefasti e l'occhio attento del lettore è riparazione. Sapida è la mestizia che ne deriva, e vuoto lo sdegno: quieto è il conversare silente di chi comprende e accoglie la vita che la permea. Parlare dentro la parola che t'incalza: anche questo è lettura. Scrivere per conservare.
   Quieta scrivevo sulle ginocchia nelle panchine dei parchi, nel treno col dondolìo lento delle carrozze, nel tavolo di casa ignorando ogni cosa a me dintorno. Pace era sempre nella scrittura che m'avvolgeva col suo ritmo. Quotidiano era il tumulto che la terapia teneva vivido barricato fra me e me stessa: la scrittura arrivava e solveva in pace un tempo per me prezioso. C'era nella pace la faticata ricerca e il pungolo dolorante del ricordo che la parola portava con sé, e la scrittura si faceva depositaria di una rimembranza pacificata.

   Anni sono passati e la scrittura continua, quasi addestrata, a snodare grovigli, a sciogliere grumi di vita che nascondono gioie auspicate e remoto peso di dolore. Ma la scrittura si accompagna con noi nelle vicende ricche dell'incontro con la storia umana che ci racconta l'opera di chi ci ha preceduti o che convive nel nostro tempo.
   Ascoltando per anni in Firenze un insigne filologo scoprii il miracoloso impegno della filologia: scava la parola, la discopre, la denuda e l'anima dello scrittore arriva a noi anche là dove il poeta non si conosce. Ai primi segnali di questa scoperta mi suggerì la filologia quasi metafore vive, l'immagine dello scugnizzo napoletano che ti offre l'ostrica e nel suo sguardo, mentre te l'apre sotto gli occhi, par donarti, quella sì gratuita, la sorpresa della conchiglia aperta. La parola ci sorprende denudandosi al saggio ricercatore e godiamo della vivezza del contatto che ci apre all'altro e con cui a volte noi sentiamo di confonderci. Ma l'altro d'un subito si libera di noi e l'altra parola incalza e noi, distinguendoci, ci appropriamo di più di noi stessi. E ci sorride il desiderio che noi possiamo giungere agli altri come a noi giungono i grandi e piccoli poeti.

 


 
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