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L'Area di Broca
Indice n.78-79
 

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"L'area di Broca", XXX-XXXI, 78-79, 2003-2004

Cinema / video / TV

 

Alessandro Franci

Cinema cinema, che spassione
 

"Mi ricordo anche il giorno in cui mio figlio Arthur – aveva sette anni a quel tempo – lasciò il cinema durante la proiezione del nostro primo film di successo, The cocoanuts, perché non c’erano sparatorie. Trovai la cosa molto deprimente – non tanto il fatto che non gli piacesse il film, ma per la possibilità che da adulto volesse diventare un critico."

Groucho Marx*

   La vita fuoriusciva lentissima nelle strade lucide di pioggia e opache di sguardi rituali, ma difficili da sostenere; allora il cinema era un posto dove nascondersi. Un’astuzia per sottrarsi alle domeniche autunnali, agli interminabili pomeriggi argentati e senza ombre. Il buio delle sale sapeva di fumo stagnante, di segatura madida; il film era secondario. Parlo di un tempo lontano e pure vicino, poiché quei cinema pur non esistendo più, rivivono di sicuro, nel ricordo di chi li ha frequentati allora. Le facciate erano scalcinate, le insegne al neon spesso guaste o agli sgoccioli, crepitavano con intermittenti ronzii; ma evocavano nei nomi richiami seducenti: Apollo, Eden, Flora, Universale. Cinema di periferia; nell’unico angolo della periferia che permettesse di sognare. Il sogno era il film naturalmente, ma anche il luogo stesso; sogno nel sogno: sopra sedili scricchiolanti di legno lucido e usurato, nel buio mucido, assordati dal suono distorto di altoparlanti grandi quanto un frigorifero. Altro sogno, i luoghi dei film: l’Arizona, le Montagne Rocciose, e i loro mitici abitanti, gli indiani. La maschera, in quegli eremi domenicali di periferia, vestiva una livrea pacchiana; la portava con limpida boria, verificando i biglietti e il contegno degli spettatori. Così, se finalmente eri al cinema con una ragazza, dovevi aspettare che la maschera fosse lontana, per tentare un bacio, perché l’altero sgherro avrebbe sicuramente illuminato, con la torcia elettrica, l’eventuale scostumatezza.
   Andare al cinema non era una mera azione motoria, ma anzi quella stessa forza precedentemente si era propagata già per altri recessi, sollecitando un’infinità d’indistinte e appena avvertibili sfumature. Ora, invece, sembra che tutto si riduca ad una scelta: quella del film da vedere. Scelta legittima e naturalmente ovvia, ma, in apparenza almeno, asciutta e pragmatica, come slegata da un contesto. Inoltre alla televisione, pubblica o privata che sia, oppure Pay tv o satellitare, puoi trovare il film che fa per te, alle ore più diverse della notte o del mattino. Oppure in prima serata, se ti accontenti del solito giallo statunitense dove un poliziotto arresta e fa processare l’assassino, se non lo ammazza; in ogni caso sempre dopo aver distrutto la propria auto, un’altra decina in sosta e quella rubata dall’assassino stesso. Vi sono distributori automatici di videocassette, altrimenti sia VHS sia DVD, li puoi acquistare ovunque; ti può persino capitare, se sei fortunato, di averne in omaggio comprando qualcos’altro.
   L’abbondanza più che la quantità e la qualità, la varietà, come proclamano i guru della nuova – ma anche vecchia – economia, costituiscono fondamenti assoluti per il successo in qualsiasi settore produttivo, quindi (sotto quest’aspetto) anche in quello cinematografico. Sono presupposti assunti a valore indiscusso, in quanto ritenuti l’impulso indispensabile per la corretta concorrenza e, in virtù di ciò, sempre stando alle varie speculazioni di politica mercantile, nientemeno che per la democrazia. Per questo motivo (viviamo appunto in sistemi democratici) avere la possibilità di vedere più film, del tipo che preferiamo, quando vogliamo e dove ci pare, è diventato normale, semplice, quasi inevitabile; banale. Nell’ingarbugliata foresta del consumismo, tutto è film; e a chiunque, a meno che non sia attore, non resta che guardare (non essendo attore, dovrà essere quindi spettatore); così rispettando i ruoli, potrà divertirsi, emozionarsi o restare indifferente. Seduto sul proprio divano, o al cinema, oppure davanti al PC. Se gli aggrada, potrà starsene pure alla finestra, tanto la realtà è sempre più finzione e la finzione spesso più debole della realtà. Pertanto, in questa sbronza stazionaria, i personaggi si fanno persone, o peggio, le persone personaggi; solo l’epilogo di tali deprimenti metamorfosi, resta drammaticamente reale.
   Tra gli effetti poi di quest’assedio incessante di film, evidente è l’illusione di esserci trasformati tutti quanti in severi cinefili. Disquisiamo sull’operato di registi, attori, scenografi; senza risparmiare, se proprio non c’è andata giù, sceneggiatori, direttori della fotografia, montatori e costumisti.
   Allora, ancora torna a mente la lontana periferia, dove in quell’angolo, tutto sommato meno sgangherato di quel che poteva sembrare allora, si poteva davvero sognare. Oggi naturalmente quella periferia, ma anche quei sogni, non esistono più. La città estendendo nuove propaggini, ha originato sempre più lontano da sé, nuove periferie; qui tra industrie, società import-export, svincoli autostradali e centri commerciali, enormi contenitori così detti multisala, accolgono dieci o più film simultaneamente. Se hai tempo, soldi e stomaco sufficienti, te li puoi sciroppare tutti quanti in un giorno o poco più. Saranno forse gli angoli delle nuove periferie, dove ancora si potrà sognare, e che domani si trasformeranno nel ricordo invaso dalla stessa intensa nostalgia per l’universo di simboli ancora una volta dispersi. Oggi, intanto, per quel che ci riguarda, quello che è accaduto, è ben descritto nelle ultime scene del capolavoro di Tornatore, "Nuovo cinema Paradiso". Infatti molti di quei cinema di quartiere, parrocchiali o rionali, hanno subito quella fine. Altri, invece, sono stati resi accoglienti in ossequio alle nuove strategie di mercato e a più moderni parametri di confort: aria condizionata, insonorizzazioni, pavimento a cucchiaio e poltroncine imbottite e sfalsate. In qualche caso l’operazione sembra riuscita: un nuovo look per ingannare l’altrimenti inevitabile degrado; in altri casi è stato proprio come agghindare un buzzurro. Molti si sono trasformati in locali così detti d’essai, oppure al vecchio nome si è aggiunta la vaga indicazione di atelier. Sono però gli stessi in cui un tempo, la signora che abitava di fronte, prima di fare i piatti scendeva, in ciabatte e con il grembiale ancora in vita, per fumarsi una sigaretta. Non pagava una lira, ci stava dieci minuti e dopo tornava in casa. I senza fissa dimora dell’epoca, che erano soltanto poveracci (cioè senza niente, almeno di fisso, come oggi del resto) pagavano il biglietto alle tre del pomeriggio, dormivano fino alla fine dell’ultimo spettacolo, cioè quando la maschera li allontanava; allora si facevano la città in lungo e in largo tutta la notte. Adesso tutto ciò non sarebbe neanche scandaloso, ma, ancora peggio, incomprensibile.
   Quello stupore, come sentimento di vivo interesse per ciò che non si sa, intelligente presenza anche – o forse soprattutto – nelle menti più complesse, sembra ceda il posto al puro divertimento; impegnato o gratuito, ma pur sempre subalterno al principio secondo cui i ruoli debbano essere sempre rispettati. Io spettatore, usufruisco di un servizio stipulando un contratto temporaneo, con te erogatore di servizi, per il mio divertimento; tu mi metti a disposizione un luogo entro il quale entrambi onoreremo il contratto stipulato. Per parte mia io resterò comunque al di sopra, al di là; resterò pur sempre io, soddisfatto o insoddisfatto, forse momentaneamente emozionato o anche stupito, ma asetticamente distaccato.
   Tuttavia per il fatto che, indubbiamente esistono, come sempre sono esistiti, grandi film, viene fatto di pensare che vi sia una sorta di feeling tra chi il film lo guarda e chi lo ha realizzato; quasi si trattasse di muta collaborazione, e questo a prescindere da ogni valore critico. Quando ciò si realizza, pare che proprio una sorta di intimi interessi, siano condivisi. Non da consumatori o spettatori da una parte, e da attori e registi da un’altra; ma da semplici persone.

*Groucho Marx, "Grouchismi", Mondadori, Milano, 2000.
 


 
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