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L'Area di Broca
Indice n.76-77
 

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"L'area di Broca", XXIX-XXX, 76-77, 2002-2003

CONTRO

 

Marco Simonelli

Controcritica*
(personalissima opinione privata in pubblico [atto osceno #1])
 

Se gli eventi non avessero spazzato via ogni mia puerile convinzione che un'entità divina possa realmente esistere, esclamerei con gioia "Grazie a Dio non sono un critico". Il verbo "criticare" è orrendo. Mi fa venire in mente una persona (personalmente visualizzata come "suocera") che non concorda mai su niente e che prova un piacere sadico nel disapprovare ciò che esiste o che è stato creato. Peggio ancora, la suocera della mia visualizzazione non si limita solamente a criticare ma va ben oltre: si dimostra sconcertata di come "sia stato possibile un tale scempio" e di come colui che volontariamente o involontariamente ne è stato artefice non abbia avuto la possibilità di accorgersi di quanto macroscopico e irrimediabile il suo errore fosse. L'espressione "fare critica" è da me percepita come aberrante: non solo vi compare il lemma "critica" ma è pure rafforzato dal verbo che per eccellenza indica una costruzione, quel "fare" che spesso collochiamo nelle nostre scatoline mentali accanto al "poiéin". Qualcosa dentro di me percepisce l'espressione "fare critica" come "fare il disfare", azione che vedo più consona a Penelope e alla sua tela piuttosto che ad una categoria di individui che oggi chiamano intellettuali. Grazie a ...hem ...grazie a GIOVE (usato qui per par condicio) non ho neppure un bagaglio filologico decente e quindi se i miei scritti possono essere benissimo bollati come "blaterare di incompetente", l'unico mezzo di cui dispongo per esprimermi è quello del suono, del ritmo, dell'immagine che si muove. Fortunosamente mi sono ritrovato a studiare la lingua inglese e a tradurla in italiano. Il lavoro mi ha notevolmente affaticato. Un giorno mi sono trovato al tavolo di una libreria-caffè con alcuni stranieri che insieme frequentavano corsi di italiano. Due giapponesi, un australiano e un israeliano. Dopo averli aiutati nei compiti spiegando loro la differenza che corre fra "cui" e "a cui" (differenza che spesso non è chiara nemmeno a me), ci siamo imbarcati in una conversazione sulla poesia. Trovavano molto difficile comprendere il significato di alcuni versi raccolti in un mio librettino che avevo dato loro più per ricambiare un loro dono (mi avevano offerto una cioccolata calda durante i giorni della merla) che per spirito autopropagandistico. Armandomi di pazienza, ho iniziato a "interpretare" ogni parola che era, per loro, oscura. Dico "interpretare" e non "spiegare" perché, conoscendo loro solo pochissimi lemmi della lingua italiana, preferivo che comprendessero il significato di parole e verbi grazie alla notoria astuzia che hanno i latini nel farsi capire, piuttosto che frustrarli utilizzando complicate perifrasi. Margherete chiede che cosa significhi "tintinnare". Io le sorrido, apro il mio borsellino, estraggo alcuni centesimi e li lascio cadere sul tavolo ripetendo l'onomatopeico "tin" ogni volta che la moneta atterra sul tavolo. "È un suono", le dico. Margherete capisce subito. Shoko invece non capisce cosa vuol dire "balbettare". Allora io le dico: "Balbettare è questo: i-ii-iii-io m-mmm-mmi ch-ch- chiam- chiamo m-mm- mmmarco". Shoko prima ride poi capisce e mi dà l'equivalente verbo in giapponese. Margherete in tedesco. Divertendoci, quella sera, abbiamo trovato il modo di tradurre una mia poesia in tedesco, arabo e giapponese (Shoko ne ha data una versione ideogrammatica). Tutti ne abbiamo ricavato qualcosa: loro adesso hanno incrementato la loro conoscenza di vocaboli italiani, io ho una mia poesia tradotta gratuitamente in tre lingue. Comunicare in questo modo è una delle attività più esilaranti e allo stesso tempo costruttive che io conosca. La raccomando sia ai critici che ai filologi. Tornando ai critici, decido adesso di sconfiggere la mia naturale indolenza, di attraversare con passo strascicato la stanza e di estrarre dalla mia piccola biblioteca il mio dizionario etimologico (regalo di una zia lungimirante). Lo consulto, cercando l'etimo di critica: la definizione più antica data 1664, C. R. Dati e dice: "esame a cui la ragione sottopone fatti e teorie per determinare in modo rigoroso certe loro caratteristiche". Ges... hem... Perdirindindina, ecco il nocciolo della mia antipatia verso tale lemma: è palese! Critica è un esame. La mia mente si affolla di ricordi di colite, di sfoghi cutanei e desquamazione del cuoio capelluto di origine psicosomatica, sintomi che si manifestavano fastidiosamente ogni qual volta nella mia vita mi sono trovato a sostenere un esame: ricordo la prova di disegno alla scuola materna (miseramente fallita), i primi pensierini, l'esame di quinta elementare affrontato grazie a qualche centilitro di enterogermina, la maturità che ho superato solo grazie al training di valenti terapeuti freudiani. Scorro ancora, cercando l'origine greca o latina del termine (poco conosco di filologia, lo ammetto, qualcosina l'ho appresa grazie alla mia frequentazione a scopo erotico di un filologo molto vicino agli ambienti dell'Accademia della Crusca, tanto mi basta per sapere che le parole italiane hanno spesso origini greche o latine). In fondo alla nota leggo che critica è un derivato del greco "krinein" che significa "giudicare, distinguere". Mi dico che è questo ciò che dovrebbe fare un critico: giudicare (cioè dare un giudizio), e allo stesso tempo distinguere. Già me l'immagino: "Simonelli non è Ungaretti" (distinzione) "ma la sua scrittura risente forse dell'amore che egli nutre per la scrittura di quest'ultimo" (giudizio, opinabile, ma sempre giudizio). D'altronde, giudice, giudicare, giudizio non sono altro che il significato allargato di "opinione, pensiero". Cosa ha a che vedere tutto questo con una suocera? È la domanda a cui cerco di rispondere. Forse sono io quello prevenuto contro i critici. I critici "stroncano": se tu sei il ramo di un albero, ti spezzano. Ti rompono in due (confronto l'inglese "to split", stesso significato ma suono più dolce). Già come suono il verbo "stroncare" mi fa pensare a quella bellissima T dritta come un femore o un fusto contro cui passa quella R rotante come una motosega. Perché sulle pagine di alcune riviste letterarie i critici invece di distinguere e giudicare si frustrano e si prostrano, si frustano e si fustigano, si arrabbiano e si offendono? Per caso il mio occhio capita sul contenuto di una parentesi, sempre sull'etimo di "critica". Dice semplicemente "v." =vedi "crisi". Ecco, in questo momento la mia coscienza raggiunge uno stato di ilarità tale che mi azzardo ad usare uno slang studentesco per la verità nemmeno tanto originale: "mi piscio addosso dal ridere". Oh Mad... hem, ... per Bacc... no, ... Accipicchia! Ripenso infatti ad un comico che, scuotendo la testa ripeteva come in un mantra "c'è grossa crisi, c'è grossa crisi".

* Scritto in merito all'annosa e annale polemica promulgata da Davide Rondoni sulle pagine di molte riviste di letteratura italiana, mentre una coppia di sfere rotanti e rotte mi appare dinnanzi come una visione freudiana e simbolica del tutto.
 


 
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