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L'Area di Broca
Indice n.76-77
 

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"L'area di Broca", XXIX-XXX, 76-77, 2002-2003

CONTRO

 

Giovanni R. Ricci

La morale degli italiani
 

Le generalizzazioni sono sempre sbagliate e, dunque, parlando qui di italiani, mi riferirò non alla totalità dei nostri concittadini ma certo alla loro stragrande maggioranza, dunque non solo agli elettori della sedicente Casa della Libertà. Se infatti governa un individuo quale il Berlusca si deve, in primis, a taluni tratti della nostra psicologia nazionale riassumibili, per parlar chiaro, nella spiccata tendenza a perpetrare reati, si tratti ad esempio di evasione fiscale o di grande criminalità (l'Italia è l'unico paese occidentale, a parte recentemente la Russia che è un Occidente sui generis, ad aver pesantemente esportato un'organizzazione criminale: la mafia). Certo, il Berlusca è andato al potere col voto: anche Mussolini ha edificato la sua dittatura sulla base d'un successo elettorale e lo stesso ha fatto Adolf Hitler. Eppure, malgrado ciò, la democrazia rimane comunque il migliore, o il meno peggiore, dei sistemi politici. Il che vale, naturalmente, anche per il nostro paese dove gli elettori di Forza Italia, e più in generale quelli del centrodestra, si sono riconosciuti - alcuni non forzisti con un po' di mal di pancia - nella psicologia, nell'etica, nella spregiudicata bravura economica, nell'egocentrica concezione del mondo del Grande Venditore assunto a loro leader. Siamo un paese in cui i furbastri e gli imbroglioni sono spesso guardati con simpatia, sempre che non si sia fra le loro vittime; e ci sono zone, al Sud e nelle isole, in cui, fra la popolazione, la tolleranza verso la grande criminalità (mafia, camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita, banditismo sardo) è ancora diffusa mentre lo Stato è tornato, spesso, a far poco il suo dovere visto che queste efficienti organizzazioni troppo di frequente controllano saldamente il territorio. E, un po' ovunque, dal Nord al Sud, la ricchezza è divenuta un valore primario, poco importa come sia stata accumulata.
   Ma veniamo agli antiberlusconiani (di cui, si sarà capito, io stesso faccio parte): la stagione di Mani Pulite, in cui gran parte della popolazione si è sentita solidale coi giudici di Milano, è lontana, malgrado i pur benemeriti girotondi e quant'altro. Resiste, certo, una minoranza di cittadini che vorrebbero un'Italia eticamente davvero europea e non levantina e sudamericaneggiante qual è. Ma, tra coloro che simpatizzarono per Mani Pulite, sono convinto vi sia stato anche chi ce l'aveva col vecchio sistema politico non per considerazioni morali ma per un meccanismo di invidia: l'invidia e l'astio nei confronti di chi ha rubato da parte di chi avrebbe voluto rubare anche lui. Situazione a sé - ma, probabilmente, almeno in qualche caso sovrapponibile alla condizione psicologica appena citata - è poi quella di leghisti e post-fascisti di AN da quando i vertici di questi partiti, fra qualche borbottio della base, hanno deciso di porsi alle dipendenze dirette del Cavaliere: la Lega su inderogabile e reiterato input della padanissima furbizia bossiana, l'allora MSI-AN in cambio dello sdoganamento di cui il Berlusca aveva per primo gratificato questa formazione non ancora mondatasi in quel di Fiuggi.

C'è un atteggiamento a tutti evidente in cui l'italica pulsione a fregarsene delle norme appare chiarissimamente: il comportamento stradale degli automobilisti. Basta provare a viaggiare in autostrada al massimo consentito (130 km/h) e ci si accorgerà come un gran numero di auto ci sorpassi, alcune a velocità intorno ai 200; e sono convinto che su quei tratti in cui, secondo alcune disposizioni integrative al nuovo Codice della Strada, la velocità massima sarà portata a 150 Km/h, i contravventori saranno ancora numerosi. Del resto, è noto che le sanzioni sono rare e relative solo a velocità elevatissime. L'obbligo dei fari da tenersi accesi in autostrada anche di giorno è stato in buona misura accolto, forse perché si tratta di un'operazione semplice e che non disturba. Invece, in autostrada e al di fuori, sono ancora molti coloro che non tollerano l'uso delle cinture, forti anche del fatto che quest'infrazione non viene in genere sanzionata, piccolo ed ulteriore esempio di come, spesso, in Italia le leggi vi siano ma non vengano applicate. Provate poi in autostrada o su un'extraurbana a rispettare, come io cerco di fare, l'obbligo della distanza di sicurezza: ci sarà sempre qualcuno che, sorpassandovi, si infilerà davanti a voi. E confesso come io debba ogni volta reprimere l'impulso ad accelerare chiudendo lo spazio al furbone e lasciandolo nelle peste. Anche le frecce per indicare l'intenzione di voltare a destra o a sinistra sono, specie nelle nostre città, divenute un optional: è un comportamento che ha risalito la penisola, al pari di quel passare col rosso che, abituale a Napoli, si comincia a notare, per ora non con frequenza, anche nel Centronord.
   Ebbene, tutti questi vezzi comportamentali, propri di chi ritenga di poter fare come gli pare, sono propri, per limitarsi ai paesi europei, solo di nazioni come la Turchia (che europea lo è solo in parte) o appunto l'Italia. Basti pensare al comportamento delle auto nostrane dinanzi a un passaggio pedonale privo di semaforo ove una o più persone attendano di attraversare: in genere i malaugurati pedoni riusciranno a farlo solo in un momento in cui le auto sopravvenienti sono lontane e comunque a loro rischio e pericolo. Invece, per fare un esempio, a Londra, anche se l'auto è ormai prossima al passaggio pedonale, non mancherà di fermarsi, se vi vedrà in attesa di attraversare. Del resto, non occorre andare così lontano perché basta recarsi nel nostro Alto Adige-Südtirol per riscontrare il più delle volte un atteggiamento analogo sebbene la frequente presenza di auto di turisti di altre regioni italiane inquini un po' questo stato di cose.
   Ma non si creda che le magagne siano solo dalla parte degli automobilisti. Giusto in una periferia del Paraguay o d'una città araba, si potrebbero immaginare biciclette che, quando è buio, sfreccino senza aver acceso il fanale, di cui spesso sono peraltro prive. Invece ci troviamo in una nostra città, magari davvero in periferia: ancora un caso di non adempimento alle regole e di quell'infantile sprezzo del pericolo che da noi è spesso associato all'atto del guidare, si tratti di auto o di altri mezzi. Ci sono poi i conduttori di motocicli che, specie al sud, troppe volte non indossano il casco, talora incorrendo in seri incidenti in cui è facile rimetterci la vita. Ma non si creda che gli italiani in quanto pedoni siano sempre innocenti: proviamo a osservare un gruppo di persone che giunga alle strisce pedonali quando è in funzione il segnale di vietato attraversamento; i più, forse tutti cercheranno comunque di raggiungere l'altro marciapiede, cercando certo di non essere investiti. Concordo, ad evitare estremi ossessivi, che il pedone, se non vede veicoli all'orizzonte, possa passare anche col rosso: ma, se ci si trova nel Granducato del Lussemburgo, si faccia attenzione perché pare che laggiù, almeno in passato, qualcuno sia stato multato per questo comportamento. All'opposto, nelle autostrade tedesche non vi sono limiti di velocità e, sebbene di fatto in più di metà della rete restrizioni in tal senso sussistano, nel resto di quel sistema autostradale gli utenti sono semplicemente raccomandati di non superare i 130 orari: evidentemente i legislatori tedeschi hanno reputato di potersi fidare nell'autoregolazione dei propri concittadini. Se questa norma vi fosse da noi, l'elenco dei morti per incidenti autostradali si allungherebbe di molto.

Il comportamento stradale è, insomma, una buona dimostrazione di quell'idiosincrasia alle regole pubbliche che connota la stragrande maggioranza dei cittadini del nostro paese. Altri esempi potrebbero farsi come l'attitudine meritoria alla pulizia all'interno delle proprie dimore e quella deprecabile allo sporcare al di fuori di tali aree sacre. Ma a questo punto viene da chiedersi: quali sono le cause di questa riluttanza alle norme, tenendo comunque presente che identificare la genesi d'un comportamento biasimevole non lo giustifica affatto? Tutto sommato sono abbastanza note ma giova sempre ricordarle.
   Intanto, a livello politico, vi è la fusione tra l'antilegalismo (loro direbbero antigiustizialismo) del centrodestra e un residuo di sospetto nei riguardi della magistratura rimasto in talune frange della sinistra. Ma solo in una dittatura è legittimo, per un vero democratico, disubbidire a una legge ingiusta; in democrazia, se una legge ci appare antietica, bisognerà, per quanto possibile, mobilitarsi perché sia abrogata ma questo è compito delle forze di opposizione prima ancora che della cosiddetta società civile. D'altro canto, che vi siano state e forse ancora vi siano frange della magistratura che si sono comportate immoralmente o addirittura criminosamente, è innegabile: penso a ipermoralisti e dunque immorali pretori come quello che ordinò il rogo di Ultimo tango a Parigi (versante etico) o, in anni vicini, alle "toghe sporche" romane (versante criminoso, almeno secondo le convincenti motivazioni dell'accusa: il processo, mentre scrivo, è ancora in corso).
   Passando alle cause storiche, la principale e forse l'unica è quella per cui gli italiani hanno un modesto attaccamento alla loro nazione, specie se raffrontato al patriottismo di popoli come il francese o l'inglese. L'unico ambito in cui il patriottismo nostrano mostra di attivarsi è quello sportivo, specie per quanto riguarda l'autentica ubriacatura - anch'essa dall'aura sudamericana - per uno sport in sé certo avvincente quale è il calcio: viene anzi in mente, a questo proposito, la vera e propria violenza esercitata dal Berlusca nel requisire a pro della denominazione del proprio partito quello che era un grido extrapolitico di incitamento agli azzurri.
   Fra i motivi di questo modesto amor di patria il più rilevante è certo il tardivo conseguimento dell'unità nazionale e l'essere stata l'Italia per molti secoli terra di conquista ("O Franza o Spagna purché si magna"): del resto, anche momenti indiscutibilmente etici della nostra storia quali il Risorgimento o la Resistenza sono stati, a ben vedere, iniziative di élites. Quando l'Italia, nel 1860, si unificò - sia pure non integralmente (restavano fuori il Lazio, il Veneto e Trieste) - erano trascorsi ben tredici secoli dal frazionamento della penisola determinatosi a seguito dell'arrivo dei Longobardi (568) e non sanato, appunto, fino all'impresa di Garibaldi. Quanto alla decadenza del Sud le sue origini rimontano nientemeno che al Trecento con il governo angioino.
   È poi mancata all'Italia una riforma protestante in quanto un malfattore, se cattolico, sa di poter tranquillamente peccare visto che può, quando vuole, pentirsi sgravandosi delle colpe con la confessione ed ottenere la salvezza anche in punto di morte mediante l'estrema unzione. Inoltre, nella dottrina luterana, vi è il libero esame delle Sacre Scritture mentre in quella cattolica permane il principio di autorità anche interpretativa.
   D'altro canto, il nostro Stato risulta, in genere, davvero assente e lontano rispetto agli effettivi bisogni dei suoi cittadini, tanto che l'unica fase storica di diffusa identificazione con lo Stato e di esteso orgoglio nazionale è stato il periodo fascista, a dimostrazione di come da noi un Paese realmente normale - democratico e insieme amato dal proprio popolo - non vi sia mai stato, se non forse all'epoca dell'unificazione e soprattutto all'indomani della seconda guerra mondiale, dunque in situazioni del tutto eccezionali: momenti fondativi di tipo democratico ove un certo entusiasmo della popolazione - di qualsiasi popolazione - è sempre connaturato all'evento. Da noi, in questa nostra prima-seconda repubblica, nei rari casi in cui lo Stato mostra una qualche sollecitudine per i suoi cittadini, capita che, ciò facendo, ribadisca come nel Bel Paese i disonesti siano molte volte premiati: penso all'uso ed abuso di condoni più o meno tombali (tombali, in realtà, per la moralità pubblica e privata) e ad iniziative consimili.

Tutto questo ha portato a un certa attitudine alle furberie e ai colpi d'ingegno per sbarcare il lunario, a un senso di appartenenza più familistico e localistico che nazionale (a parte l'adesione ai precetti della Chiesa o del Partito) e a un senso etico che era ereditato dal clan e/o orientato dall'istituzione religiosa o politica ma che oggi, in fase di ridefinizione del modello familiare, appare sempre più introiettato sulla base di modelli televisivi e in chiave, per certi aspetti, anarco-individualistica.
   Questa non immedesimazione col proprio paese, questo senso del peccato connesso alla scappatoia etica del pentimento, questa modesta propensione alla legalità (recriminata anche da Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani e in vari passi dello Zibaldone), hanno forse influito perfino su un curioso fenomeno della nostra storia letteraria: la davvero scarsa abilità nella scrittura tragica, a confronto degli autori dell'età elisabettiana inglese o del Seicento francese o dello stesso Siglo de Oro spagnolo (ove, pure, le tragedie in senso stretto non sono frequenti). Sul nostro versante - è nozione scolastica eppure vera - spiccano solo i lavori tragici di un italiano atipico come Vittorio Alfieri. Il fatto è che, per scrivere una tragedia e per apprezzarla in quanto pubblico, era necessario 'pensare in grande' mentre gli italiani erano piuttosto interessati al loro particulare e a vicende in cui potessero più agevolmente identificarsi traendone inoltre una gratificazione finale: ed è infatti nel campo della commedia che vari nomi importanti vi sono stati. Il romanticismo, si sa, getta le basi per la dissoluzione dei generi finché nel corso dell'Ottocento, invece che di tragedia o commedia, si inizia a parlare di dramma mentre il Novecento ha sancito, come erede del tragico, in quanto più consono all'epoca, il grottesco. Da questo punto di vista qualcosa di rilevante l'Italia ha prodotto sia pure ad opera d'un numero minimo di individualità: a parte gli interessanti ma non eccelsi autori detti appunto del grottesco (Chiarelli, Antonelli ecc.), i nomi da evidenziare rimangono quelli di Pirandello e di Rosso di San Secondo. Ma negli anni Cinquanta chi competeva, da noi, con un Beckett? Questo sguardo rivolto al particulare e dunque la difficoltà a decentrarsi ha, credo, inibito anche l'attrazione in letteratura ed in cinema per il fantastico: certo vi sono state e vi sono eccezioni ma numericamente esigue e qualitativamente (salvo pochi nomi) di basso profilo.
   Mi pare, a questo proposito, utile ricordare una vicenda storico-culturale piuttosto emblematica. Nel 1480, in un breve testo teatrale (Fabula di Orfeo) - in sé alquanto modesto, come lo stesso autore asseriva, ma storicamente importante - Poliziano ha narrato la tragica storia di Orfeo ed Euridice: lei morta, lui che va negli Inferi per riportarla alla vita, Plutone e Proserpina che gli consentono di riaverla purché non si volti a guardarla durante la risalita, la trasgressione a questo divieto, Euridice che è risucchiata nell'oltretomba, l'impossibilità per Orfeo di portarla con sé una seconda volta, le Baccanti che infine lo fanno a pezzi adirate dalla sua decisione di disdegnare di lì in avanti le donne. Non si tratta d'una tragedia ma d'una sorta di dramma pastorale (genere che nascerà in senso stretto più avanti) e il ballo cantato in onore di Bacco con cui le sue seguaci concludono la pièce ha tratti marcatamente comici ma i morti restano comunque tali e la storia rimane in sé assai lacrimevole. A fine Cinquecento, com'è noto, e semplificando un po' le cose, la Camerata fiorentina, nel tentativo di resuscitare la tragedia greca, fa nascere invece il melodramma. Uno dei primissimi è Euridice, che ha un apprezzabile libretto di Ottavio Rinuccini, musiche suggestive di Jacopo Peri ed è stato rappresentato a Palazzo Pitti il 6 ottobre 1600 (lo stesso testo è stato musicato nello stesso anno anche da Giulio Caccini, versione - questa - messa in scena, sempre a Pitti, nel 1602): ebbene, qui Orfeo non subisce alcuna condizione dai sovrani infernali e se ne torna bel bello con la sua amata senza problema alcuno. Perché infatti dispiacere al nobile pubblico privandolo d'un rasserenante lieto fine? D'altro canto, nell'Ottocento, a rappezzare l'italica carenza in campo tragico ha sopperito proprio la produzione operistica verdiana.

Tornando a temi politici, la scarsa immedesimazione degli italiani col loro Stato, talora, li ha anche portati, per evitare di impegnare la propria capacità decisionale in prima persona, a delegare la soluzione dei propri personali problemi - dubbi ideologici e religiosi, preoccupazioni materiali - a entità sovraindividuali: l'Uomo della Provvidenza (Mussolini, Berlusconi), la Chiesa, il Partito. Non è un caso che nella prima repubblica si siano a lungo fronteggiate due grosse formazioni politiche una delle quali aveva il suo punto di riferimento nella Chiesa (la DC) e l'altra in un'ideologia utopico-salvifica fondandosi, inoltre, su un'organizzazione chiesastica interna (il PCI) mentre, nel dopoguerra, era stato costretto a morire, per la disaffezione dell'elettorato, un raggruppamento politico moderno, europeo, progressista e non chiesastico quale il Partito d'Azione. Allo stesso modo l'idea d'un Partito Democratico aleggia talora negli scenari futuribili del centrosinistra come il fantasma di qualcosa che temo non arriverà mai, tanto ogni partituzzo è geloso della propria identità e della propria quota di potere, e tanto pesano ancora, pur rabberciate, le vecchie ideologie.
   L'italiano è spesso tendente anche a una certa conflittualità verbale e talvolta fisica: si pensi, per esempio, storicamente, al contrasto guelfi-ghibellini e, tutt'oggi, alle rivalità fra città e fra quartieri d'una stessa città, alle tifoserie sportive, alle contrapposizioni partitiche. Ciò, come si vede, non contrasta con la delega delle scelte 'ideologiche' dato che la messa in atto del litigio il più delle volte si colloca, per ognuno dei contendenti, all'interno d'un preciso status di appartenenza. Entro il vincolo delle regole del proprio gruppo di riferimento ognuno può, poi, esprimere il proprio sentire ma da noi questo vale soprattutto sul versante ludico dello sport, con particolare riguardo al calcio: tifosi d'una stessa squadra possono pensarla diversamente su certe scelte dell'allenatore o sul rendimento in campo d'un giocatore mentre, quando si tratta di dibattere della nazionale, milioni di italiani si trasformano in aspiranti commissari tecnici.
   Insomma, siamo un paese un po' leggerino, da "canta che ti passa", in cui conta l'arte di arrangiarsi, essere furbi è (quasi) sempre un merito, la mamma è sempre la mamma e dove un soggetto spregiudicato e dall'io ipertrofico può fare facilmente carriera, ieri Mussolini, oggi - con l'aggiunta del fattore danè - Berlusconi. Consoliamoci pensando che, a suo tempo, un popolo serio e rispettoso delle regole come quello tedesco, pur avendo dato ai nazisti 'solo' il 44% dei voti (nelle elezioni del 1933, le ultime prima della dittatura), poi, nel suo insieme, salvo rare ed eroiche eccezioni, ha tollerato senza sforzo e spessissimo amato il necrofilo caporale austriaco e il suo criminale regime.
   Del resto, io stesso sono pur nato in quest'Italia che, oltre tutto, per vari aspetti (arte, paesaggi, cucina), mi piace. Per cui concluderò parafrasando (e, ahimè, deritmando) il refrain d'una bella canzone di Gaber-Luporini: io non mi sento italiano ma purtroppo, o per fortuna, lo sono.


 
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