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L'Area di Broca
Indice n.76-77
 

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"L'area di Broca", XXIX-XXX, 76-77, 2002-2003

CONTRO

 

Luca Baiada

Rifiuto
 

Lirismi, chimismi, chiacchiericci.
Poesia sedicente, semovente, sesapiente.
S'avvolge nella sua coda di paglia.

Vi piace, il verseggio impietoso.
Vi dite colpiti.
Sordida bava cola, adulazione gratuita.
Insincera prosa di marionette parlanti.
Sognate il bello, soffiate
zucchero a velo da fiera,
è la fiera paesana dell'Italia intellettuale.
Venghino, signori,
alle bancarelle delle parole.
In un rumore meccanico,
ingranaggi taglienti di premi truccati,
voci melliflue invitano al tiro a segno.
Il segno manca, è stravolto,
deformato dai grimaldelli
con cui la borghesia addomestica il mondo.
Resta il tiro, l'offesa:
bersagli l'io, il tu, tutti.
Nei globi di vetro
ecco pesci rossi e neri e bianchi,
da pescare a caso con crudeltà giocosa,
da vedere boccheggiare
come disoccupati, sfrattati,
pensionati alla fame.
Paperelle automatiche
galleggiano in acqua lercia, se colpite
affondano spargendo sangue vero.
Lo spettacolo delle parole
si sciacqua in pirotecnici manierismi,
per una gioia da cosmesi.
I cherci della penna
confabulano, affabulano, fibrillano,
spargono semi tarati:
andate e predicate al mondo ciance.
Pure, un rigurgito di realtà
gorgoglia nel buio, presto smorzato
da atrocità deglutite compunte,
fingendo di leccarsi le labbra.
Mi porgete veleno, mi porgete.
Dama addestrata alle lettere,
avida di sillabari minuti, ordinati
sui righelli levigati della borghesia
e odorosi di matite ben temperate,
sei pasciuta d'un tedio svuotato
che credi patinabile d'oro
solo perché fa "ozio letterario".
Funzionario altolocato, cioè
scriba mendace, ubbidiente alla poltrona
che chiami lavoro e hai fatto mestiere,
spargi caramelle insipide
che chiami versi e non sono che il recto
di moneta falsa dal suono spezzato:
e incarti quei bocconi di sbadigli
con ciaccole da ombelico
su dissonanze retoriche,
a compiacere il tuo gusto da rigattiere.
Mi porgete veleno, mi porgete.
I miei versi, segno politico, dite.
Incompatibili
con l'assoluta apoliticità dell'ente,
con le funzioni istituzionali dell'associazione.
E levate suscettibilità vibratili,
alte come le orecchie del coniglio.
Ma le vostre voci chiocce, chiocce ma non aspre,
chiocce ma senza rime e senza petre,
hanno patina d'umano, perciò di tradimento.
Fedeli al vostro non vivere,
all'opacità dei vostri tinelli con vista
sulle disgrazie, figlie prostitute della vostra classe,
temete voi stessi il nulla che vi fa da trono.
Nel condannare all'esilio
già temete di spargere zingari.
E piano, suadente, mormora un vostro pentimento.
Pentimento, occhiuto, torvo
dell'invidia inquisitoria per il peccato.
Ha bisogno di pelle finta,
di umanità da calendario patinato,
questo vostro commuovervi da ciuchi.
E allora le voci
si fanno miseria confortante, carezze
con la carta vetrata del poi e del mai.
Promettete futuro interessamento,
augurate qualcosa
con le frasi insincere del rimario,
con le bassezze del prontuario.
Ma è paura della realtà, dei fatti
nel loro essere e divenire
la rogna che vi prude, la cancrena
che impomatate con melliflue attese.
Temete senza fremito,
pronti a velare il capo d'ubbidienza,
a non perdere la testa, che non avete più.
Il corto fiato dell'adeguamento
che chiamate ragionevolezza, moderazione
è moda, modello, modestia di senno.
Le cose, cose vere di carne
con cui temete di compromettervi
sono più pulite del vischio classista.
Il biglietto d'ingresso nei vostri scrigni
è lo sbiadire dei fatti, lo stemperare delle passioni
in un generico patema d'animo,
in un'esecrazione confusa,
o è il cacciarsi col capo
giù negli spiritismi contemplanti.

La borghesia italiana, giovin signore
attempatosi fra balocchi sorpassati
facendo modellismo digestivo
del Risorgimento e della Costituzione,
si arriccia parrucche pidocchiose
per guardarsi allo specchio
degli intellettualismi perdenti.
Sempre timorosa, perché timorata,
cioè ignara di coscienza,
si tormenta le mani, si mangia le unghie
in dispetti forcaioli senza giustizia,
abituata a cambiare parola
come cambia abito
e orbace e tonaca e teleschermo.
La fabbrica di frustrazioni
in cui vi fate capireparto, cioè aguzzini,
e lo zelo d'aguzzini è il più dolce per voi,
vuole svago da sillabario, senza memoria.
Così offendete il tempo,
pronti a risucchiare e a sputare
ogni nuovo paggio chiacchierino,
purché vispo nella corruttela di qualsiasi verbo:
che strisci per un Gesù corrotto nelle sagrestie,
o gargarizzi minareti da Mille e Una Notte
o sottilizzi talmudismi cingolati,
o persino che filosofeggi ateismi da vetrina,
perché il vostro essere ecumenici
sgranocchia senza imbarazzo di scelte.
Persino nell'eresia
volete pulirvi le scarpe.
Vi credete padroni della parola
perché il ceto dominante sa bene, e fermo nega,
che ogni scelta di lingua è ideologia.
Ed il balletto programmato
con cui fate un passo avanti e tre indietro
mima coazione a ripetere
il vostro moto a non andare mai.

Io nego, nego
d'avere rimedio alla vostra censura.
Rimedio è medicina, cioè pharmakos,
cioè espiazione.
Ma alla colpa che teme la realtà
non si offre tributo.
Meglio radice amara dei fatti
che lanx satura di frutta di cera
a idoli nati vecchi.

E tutto questo, come sa di sale.
 


 
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