Indice L'area di Broca
 
L'Area di Broca
Indice n.75
 

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"L'area di Broca", XXIX, 75, 2002

AMICIZIA / COOPERAZIONE

 

Roberto Michilli

Mare incantato
 

Pino suonava l'organo. Conosceva bene la musica: accompagnava con l'armonium il coro, alla Messa della domenica in Duomo. Era lui a curare gli arrangiamenti e a darci gli attacchi. Alla batteria c'era Gigi, che faceva il primo anno di liceo, voleva studiare medicina, e anche prima che mettessimo su il complesso andava in giro con una coppia di bacchette e rullava su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: barattoli, portoni, cofani di automobili, schiene con amici. Il basso lo suonava Mino. All'inizio, a dire la verità, con molta cautela. Cominciammo a parlare di questa storia del complesso nell'inverno del '67, dentro il box di vetro e lamiera del distributore di benzina di cui Mino, già da molti anni, passava tutte le sue giornate. Era il suo lavoro. Noi, invece, eravamo ancora studenti e avevamo tanto tempo libero, così andavamo spesso a trovarlo e restavamo a fargli compagnia per buona parte del pomeriggio. Accalcati nello spazio ristretto, intirizziti d'inverno e mezzo soffocati d'estate, fumavano, leggevamo Tex, giocavamo a carte, parlavamo di ragazze e di musica, appunto. Volevamo assolutamente che del complesso facesse parte anche Mino. Era il più buono e generoso degli amici e gli eravamo molto affezionati, ma era l'unico a non saper strimpellare nessuno strumento e a non avere la minima nozione di musica. Così pensammo al basso. Era il più semplice da imparare, e a noi serviva. Con un corso accelerato, Pino gli spiegò come ottenere le note da quella strana chitarra che aveva quattro sole corde, anche se in compenso erano belle grosse. Mino, quindi, nei primi tempi si limitava a eseguire la nota base dell'accordo, e lo faceva aspettando il segnale che l'amico gli dava suggerendogliene il nome a mezza bocca. Dopo pochi mesi, però, divenne bravissimo, e i suoi giri composti ed essenziali presero a fare da solida base alle nostre esecuzioni. Io suonavo la chitarra, solista e d'accompagnamento. Provavamo a casa di Pino. Abitava in quello che era stato il vecchio convento, e aveva una stanza vuota da metterci a disposizione. Per gli orari, ci adeguavamo ai momenti liberi di Mino, che li sacrificava generosamente quasi a tutti noi. Lavoravamo con impegno, provando e riprovando ogni pezzo per ore, per la pura soddisfazione di farlo bene. A compensare la nostra fatica, bastava la gioia di stare insieme e di fare musica. Dopo un po', cominciammo ad avere pubblico alle nostre prove. Dapprima un amico, poi un altro, poi un paio di ragazze, persino. Quando c'erano loro il "sound" migliorava in modo sensibile. Fu una delle due a dire, una sera che "Sognando la California" c'era venuta proprio rotonda, con i coretti e gli incisi tutti giusti: "Ma perché non suonate in pubblico?". Era una cosa alla quale non avevamo mai pensato,ma ne parlammo e decidemmo che valeva la pena di provarci. A quanto sembrava, la musica attirava le ragazze, e già questo era un motivo sufficiente. Un colpo di fortuna ci consentì di procurarci l'indispensabile amplificazione per la voce. La comprammo usata da un mezzo parente di Mino, tornato da poco dalla Germania dov'era emigrato vent'anni prima. Faceva il cameriere, e in più cantava e suonava la fisarmonica nelle balere. Era dovuto tornare a casa per motivi di salute. Non poteva suonare più e quella roba non gli serviva a niente, ormai. Era un apparecchio bellissimo, fin troppo sofisticato per noi. Portava ben sei microfoni e faceva anche da equalizzatore e da mixer. Era persino dotato di un registratore a nastro. Il cameriere ci chiese 600.000 lire. Valeva molto di più, lo sapevamo benissimo, ma per noi quella cifra era comunque proibitiva. Per di più avevamo già fatto debiti per comprarci gli strumenti. Ma quel brav'uomo si accontentò di un piccolo acconto. "Me lo pagherete un po' alla volta", disse, "con i soldi che guadagnerete suonando. Almeno così serva a qualcosa. Qui finirebbe per rovinarsi". Adesso dovevamo trovarci un nome. Dopo lunghe e accanite discussioni, ci accordammo per "The Spitfires". Per sigla, scegliemmo "Mare incantato", un vecchio motivo riportato in auge qualche anno prima da Santo & Johnny, facile da eseguire e di grande atmosfera. Esordimmo nell'estate del '69, in una festa campagnola al convento di San Bernardino, di là dal fiume. La strada non arrivava fin lì, e per un lungo tratto fummo portati, noi e i nostri strumenti, da due traini a slitta, trascinati da placide coppie di buoi. Non avevamo compenso, ma ci dettero da mangiare e da bere. Da bere, soprattutto. C'erano diverse damigiane di vino, posate su un muretto sopraelevato, e si bevevo riempiendoci il bicchiere da soli, aspirando da un tubo di gomma infilato dentro la damigiana. Dopo i primi bicchieri, però, scoprimmo che era molto più semplice bere direttamente dal sifone. Grazie alle più che abbondanti libagioni, riuscimmo a superare la paura del pubblico. Ci lanciammo, e la nostra esibizione ebbe un grande successo. Molti si misero anche a ballare, nel portico dove era montato il palco e nei prati intorno. C'era gente di tutte le età, ma noi avevamo un repertorio vasto, con il quale potevamo accontentare tutti. Oltre ai successi del momento, eravamo in grado di suonare musica da ballo, vecchie canzoni italiane e i grandi standard americani degli anni trenta e quaranta. Tornammo a casa a notte fonda, ancora una volta con la slitta. I buoi andavano a passo lento e noi, un po' brilli, sdraiati vicini sulle assi di legno, assaporavamo il successo e guardavamo le stelle.
 


 
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