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L'Area di Broca
Indice n.75
 

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"L'area di Broca", XXIX, 75, 2002

AMICIZIA / COOPERAZIONE

 

Alessandro Ghignoli

Traduzione in-amicizia
 

Traduttore, traditore. Quante volte abbiamo sentito (dovremmo dire, sopportato) questa equazione semplificativa del rapporto che un traduttore ha con il testo, con l'autore, la lingua e la parola. Se tradire è venir meno a un impegno assunto, deludere un'aspettativa, ingannare, allora quale valore diamo a questo termine? Con quale coraggio (dovrei dire, presunzione?) mi avvicino a una poesia per tradurla? I motivi finali sono molteplici, uno su tutti l'operazione culturale, pensiamo ai primi traduttori di haiku giapponesi che hanno fatto conoscere questa particolare forma di poesia. Quanti poeti italiani, oggi, si sono addentrati nei tre versi di 5-7-5 sillabe! creando uno stile, una corrente, ecc. Quanti universi umani, ideologici, sociali sono venuti a noi attraverso traslazioni di testi che (forse) mai avremmo potuto avere la possibilità di leggere.
   Secondo la critica idealista l'idea di intraducibilità diventa un concetto accettato e normalizzato. Basta ripensare all'idea del Croce delle "traduzioni inestetiche", o al poeta spagnolo Dámaso Alonso che sottolineava l'idea che la traduzione non è altro che un cammino diverso per arrivare all'opera originale: Hay que llegar al poema en su propia Iengua. [Bisogna arrivare alla poesia nella sua lingua]. Percorsi diversi. idee di impossibilità nel rendere un'opera originale in un'altra lingua e ancora, il pensiero orteghiano dell'apparato del testo tradotto come inavvicibilità al testo originale, hanno creato e relegato la traduzione come un luogo di scontro fra due lingue e due culture.
   Tutto questo fa sì che il traduttore sia visto come uno dei peggiori degli esseri umani!? Ma, ci mancherebbe, solo nel caso in cui ci ricordiamo di lui!!
   Il mio tentativo, decisamente poco modesto, è di sovvertire o per lo meno cercare di cambiare questa idea di chi traduce, in qualcosa di altro.
   Che cosa spinge a tradurre, per esempio un testo poetico? La voglia di far conoscere un dato autore, un determinato testo, per i più egocentrici la dimostrazione di saper tradurre oltre ad essere riconosciuti già come grandi autori, un modo di ri-scrivere. Ci si dimentica con troppa frequenza che il traduttore è uno scrittore.
   Dove trova quella particolare forza che fa stare questo particolare 'traditore' ad arrovellarsi per giorni su un verso, una virgola, un ritmo? Alla base di tutto c'è un aspetto che poche volte viene preso in considerazione ed è quello dell'amicizia che si ha con la poesia, con la lingua, quella volontà di far coesistere due autori in un testo, di farsi altro, di essere fuori da sé riconoscendosi in un altro scrittore, in un'altra cultura, in un nuovo processo di maturazione parallelo per un incontro infinito. Anche questo spinge un traduttore nel tentativo di un piacere nell'incontro, anche nel senso etimologico di placare "i moti dello spirito", per dirla con Dante. Questa voglia di capire appieno un poeta, i suoi versi, il suo mondo culturale ma non solo, la sua educazione letteraria, scoprire le sue letture, quali autori ha letto, assimilato, in quale rapporto si trova con la propria (ma non solo) tradizione... è dunque ricercare, investigare, conoscere. E' inoltre amicizia alla parola, una ricerca su essa sul suo suono, sul ritmo. E' un collaborare per cercare di far muovere la lingua, di creare quell'effetto di rimando. Un rimando senza fine. Sicuro che troveremmo delle differenze se andassimo a leggere un autore classico tradotto nell'ottocento e lo stesso autore ritradotto alla fine del novecento. Eppure, teoricamente, leggiamo lo stesso scrittore. Qui si scopre l'ovvio! Quando leggo Kafka in italiano, Pasolini in francese o García Lorca in inglese, in realtà sto leggendo (anche) il suo traduttore.
   Eppure quest'idea di vicinanza, di amicizia tra il testo e il traduttore era già nota in tempi passati. Se recuperiamo il De interpretatione recta (1440) di Leonardo Bruni, possiamo renderci conto come il Bruni parlando di rapitur, intendesse un essere rapiti per un inserimento globale nel testo, esigendo un impulso civile con la finalità di far conoscere opere degne di essere lette da chi non conosce l'atra lingua. Walter Benjamin sviluppa la sua visione di una traduzione non-etnocentrica, propone una lingua che sia in continuo movimento, un perenne rinnovamento in cui il rapporto fra traduzione e originale è di tipo integrativo; un'assenza gerarchica di una lingua sull'altra (Derrida).
   La traduzione per molto tempo ha fatto parte della linguistica. Per fortuna oggi si è liberata di questa prigione più ideologica che culturale per la verità! A volte si possono creare dei fenomeni particolari. Pensiamo a quegli autori che hanno scritto sulla Guerra Civile spagnola del 1936-39 da una prospettiva di autori non iberici come E. Hemingway con Per chi suona la campana, A. Malraux con La speranza e G. Orwell con Omaggio alla Catalogna. In che modo questi testi tradotti in castigliano e sicuramente nel caso di Orwell in catalano sono "ritornati" in Spagna? Sarebbe interessante, in prospettiva sociologica, sapere come e se sono stati accettati dai lettori. E' dunque la traduzione solo un processo linguistico? E' dunque un traduttore un nemico? Nel momento che accetto questo lavoro di movimento della lingua, accetto la cooperazione che può nascere da questo processo che è il tradurre. Entrare in un dialogo di comprensione ed intendimento, un avvicinarsi mutuo per una comprensione fra due mondi. Creare empatia fra testo originale e testo finale non può non passare attraverso un senso etico di collaborazione e perché no di amicizia tra chi traduce e il testo.
 


 
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