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Pietro Metastasio

L'isola disabitata

Biblioteca Classica Uroboro

a cura di Paolo Pettinari
Edizioni Mediateca - 2001

 

Fonti

Pietro Metastasio, Tutte le opere, a cura di B.Brunelli, Milano, Mondadori, 1943-1954.
Pietro Metastasio, Opere, a cura di M.Fubini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968.
 

L'autore

Pietro Trapassi / Metastasio (Roma, 1698 - Vienna, 1782) è autore di poesie liriche e numerosi melodrammi, fra cui: Didone abbandonata (1724), Olimpiade (1731), La clemenza di Tito (1734) e Attilio Regolo (1740). Biografia: G.Natali, La vita e le opere di Pietro Metastasio, Livorno, Giusti, 1923.
 

Il testo

Questo breve pezzo teatrale (poi messo in musica, fra gli altri, da J.Haydn) può essere considerato come una riformulazione galante del modello fiabesco e, per certi versi, del mito di Orfeo ed Euridice. I motivi principali della fiaba ci sono tutti: dal viaggio, alla morte simbolica, alla resurrezione, al trionfo finale del bene. Così come si ritrovano alcuni nuclei narrativi del mito orfico: la separazione dei giovani sposi, il viaggio dello sposo, il ritrovamento dell'amata.
    Ma il tutto è stato in qualche modo semplificato e addomesticato, la discesa agli inferi è appena tratteggiata, l'esperienza dell'abbandono e della solitudine è già in qualche modo esaurita, così che alla fine rimane la "favola bella", una vicenda rassicurante in cui il percorso iniziatico è soltanto abbozzato e in cui, rovesciando l'esito del racconto di Orfeo, risalta, in una sorta di apoteosi, il lieto fine. L'esperienza simbolica della vita, in sostanza, appare fortemente deformata da una visione utopica dei rapporti umani che, nella costruzione musicale del testo, nel ritmo veloce delle frasi, nel tono retorico estremamente formalizzato, assume la forma di un blando rito magico propiziatorio, volto a esorcizzare il dolore dell'esistenza.
    Se ci è consentita una riflessione generale, vorremmo dire questo: in un testo letterario in cui sia rilevabile una vicenda narrativa, la presenza o l'assenza di certi motivi possono dare un'idea di come un autore o persino un'intera cultura interpretino l'animo umano. Nell'età del rococò e dell'Arcadia, probabilmente, quando anche certe tragedie shakespeariane venivano rielaborate in modo da farle finir bene, quando anche le frequentissime bizzarrie del caso sembravano seguire codici di occorrenza e convenienza, mal si tollerava di rappresentare la parte buia dell'anima. Così che la letteratura veniva spesso ad avere una funzione esorcistica o addirittura consolatoria, lasciando in secondo piano la funzione conoscitiva. [P.P.]

 

*****

 

Questa azione teatrale fu scritta dall'autore in Vienna l'anno 1752, per la real corte cattolica, dove venne magnificamente rappresentata la prima volta con musica del Bonno, sotto la direzione del celebre cavalier Brioschi.

ARGOMENTO

Navigava il giovane Gernando colla sua giovanetta sposa Costanza e con la piccola Silvia, ancora infante, di lei sorella, per raggiungere nell'Indie Occidentali il suo genitore, a cui era commesso il governo di una parte di quelle; quando da una lunga e pericolosa tempesta fu costretto a discendere in un'isola disabitata per dar agio alla bambina ed alla sposa di ristorarsi in terra delle agitazioni del mare. Mentre queste placidamente riposavano in una nascosta grotta, che loro offerse comodo ed opportuno ricetto, l'infelice Gernando con alcuni de' suoi seguaci fu sorpreso, rapito e fatto schiavo da una numerosa schiera di pirati barbari, che ivi sventuratamente capitarono. I suoi compagni, che videro dalla nave confusamente il tumulto, e crederono rapite con Gernando la bambina e la sposa, si diedero ad inseguire i predatori; ma, perduta in poco tempo la traccia, ripresero sconsolati il loro interrotto cammino. Desta la sventurata Costanza, dopo aver cercato lungamente in vano lo sposo e la nave, che l'avea colà condotta, si credé, come Arianna, tradita ed abbandonata dal suo Gernando. Quando i primi impeti del suo disperato dolore cominciarono a dar luogo al naturale amor della vita, si rivolse ella, come saggia, a cercar le vie di conservarsi in quella abbandonata segregazion de' viventi; ed ivi dell'erbe e delle frutte, onde abbondava il terreno, si andò lunghissimo tempo sostenendo con la picciola Silvia, ed inspirando l'odio e l'orrore da lei concepito contro tutti gli uomini all'innocente, che non li conosceva. Dopo tredici anni di schiavitù, riuscì a Gernando di liberarsi. La prima sua cura fu di tornare a quell'isola, dove avea involontariamente abbandonata Costanza, benché senz'alcuna speranza di ritrovarla in vita.

L'inaspettato incontro de' teneri sposi è l'azione che si rappresenta.

INTERLOCUTORI
Costanza, moglie di Gernando.
Silvia, di lei sorella minore.
Enrico, compagno di Gernando.
Gernando, consorte di Costanza.

*****

SCENA PRIMA

[Parte amenissima di picciola e disabitata isoletta a vista del mare, ornata distintamente dalla natura di strane piante, di capricciose grotte e di fioriti cespugli. Gran sasso molto innanzi dal destro lato, sul quale si legge impressa un'iscrizione non finita in caratteri europei.]

[Costanza, vestita a capriccio di pelli, di fronde e di fiori, con elsa e parte di spada logora alla mano, in atto di terminare l'imperfetta iscrizione.]

COSTANZA
Qual contrasto non vince
L'indefesso sudor! Duro è quel sasso,
L'istromento è mal atto,
Inesperta la mano; e pur dell'opra
Eccomi al fin vicina. Ah sol concedi
Ch'io la vegga compita,
E da sì acerba vita
Poi mi libera, o Ciel. Se mai la sorte
Ne' dì futuri alcun trasporta a questo
Incognito terreno,
Dirà quel marmo almeno
Il mio caso funesto e memorando.
[Legge l'iscrizione.]
"Dal traditor Gernando
Costanza abbandonata i giorni suoi
In questo terminò lido straniero.
Amico passeggiero,
Se una tigre non sei,
O vendica o compiangi..." i casi miei.
Questo sol manca. A terminar s'attenda
Dunque l'opra che avanza
[Torna al lavoro.]

 

SCENA SECONDA
[Silvia frettolosa ed allegra, e detta.]

SILVIA
Ah germana! Ah Costanza!

COSTANZA
Che avvenne, o Silvia? Onde la gioia?

SILVA
    Io sono
Fuor di me di piacer.

COSTANZA
    Perché?

SILVIA
        La mia
Amabile cervetta,
In van per tanti dì pianta e cercata,
Da se stessa è tornata.

COSTANZA
    E ciò ti rende
Lieta così?

SILVIA
    Poco ti pare? E' quella
La mia cura, il sai pur, la mia compagna,
La dolce amica mia. M'ama, m'intende,
Mi dorme in sen, mi chiede i baci, è sempre
Dal mio fianco indivisa in ogni loco:
La perdei; la ritrovo; e ti par poco?

COSTANZA
Che felice innocenza! [Torna al lavoro.]

SILVIA
    E ho da vederti
Sempre in pianti, o germana?

COSTANZA
    E come il ciglio
Mai rasciugar potrei?
Già sette volte e sei
L'anno si rinnovò, da che lasciata
In sì barbara guisa,
Da' viventi divisa,
Di tutto priva e senza speme oh Dio!
Di mai tornar su la paterna arena,
Vivo morendo; e tu mi vuoi serena?

SILVIA
Ma per esser felici
Che manca a noi? Qui siam sovrane. E' questa
Isoletta ridente il nostro regno;
Sono i sudditi nostri
Le mansuete fiere. A noi produce
La terra, il mar. Dalla stagione ardente
Ci difendon le piante, i cavi sassi
Dalla fredda stagion; né forza o legge
Qui col nostro desio mai non contrasta.
Or di', che basterà, se ciò non basta?

COSTANZA
Ah tu del ben, che ignori,
La mancanza non senti. Atta del labbro
A far uso non eri, o del pensiero,
Quando qui si approdò; né d'altro oggetto
Che di ciò che hai presente,
Serbi le tracce in mente. Io, ch'era allora
Quale or tu sei, paragonar ben posso,
Oh memoria molesta!
Con quel ben che perdei, quel che mi resta.

SILVIA
Spesso esaltar t'intesi
Le ricchezze, il saper, l'arti, i costumi,
Le delizie europee; ma con tua pace
Questa assai più tranquillità mi piace.

COSTANZA
Silvia, v'è gran distanza
Dall'udire al veder.

SILVIA
    Ma pur le belle
Contrade, che tu vanti,
D'uomini son feconde; e questi sono
La spezie de' viventi
Nemica a noi. Tu mille volte e mille
Non mi dicesti...

COSTANZA
    Ah sì, tel dissi, e mai
Non tel dissi abbastanza. Empi, crudeli,
Perfidi, ingannatori,
D'ogni fiera peggiori,
Che sia pietà non sanno;
Non conoscon, non hanno
Né amor, né fé, né umanità nel seno. [Piange.]

SILVIA
E ben, da lor qui siam sicure almeno.
Ma... tu piangi di nuovo! Ah no, se m'ami,
Non t'affligger così. Che far poss'io,
Cara, per consolarti? [La prende per mano.]
Brami la mia cervetta? Asciuga il pianto,
E in tuo poter rimanga.

COSTANZA
Ah troppo, o Silvia mia, giusto è ch'io pianga.
[Abbracciandola.]
Se non piange un infelice,
Da' viventi separata,
Dallo sposo abbandonata,
Dimmi, oh Dio, chi piangerà?
Chi può dir ch'io pianga a torto,
Se né men sperar mi lice
Questo misero conforto
D'ottener l'altrui pietà. [Parte.]

[Alla replica dell'Aria si vede passar di lontano a vele gonfie una nave, dalla quale scendono sul palischermo Gernando ed Enrico in abito indiano, che sbarcan poi sul lido.]

 

SCENA TERZA
[Silvia sola.]

SILVIA
Che ostinato dolor! Quel pianger sempre
Mi fa sdegno e pietà. Prego, consiglio,
Sgrido, accarezzo, ed ogni sforzo è vano.
Ma l'enigma più strano è che, qualora
Consolarla desio,
Il suo pianto s'accresce, e piango anch'io.
Seguiamo almeno i passi suoi...
[Nel voler partire s'avvede della nave.]
    Ma... quale
Sorge colà sul mar mole improvvisa?
Uno scoglio non è. Cangiar di loco
Un sasso non potrebbe. E un sì gran mostro
Come va sì leggier! L'acqua divisa
Fa dietro biancheggiar! Quasi nel corso
Allo sguardo s'invola:
Porta l'ali sul dorso, e nuota, e vola!
A Costanza si vada:
Ella saprà se un conosciuto è questo
Abitator dell'elemento infido;
E almen...
[Nel partire vede non veduta Gernando ed Enrico.]
    Misera me! Gente è sul lido.
Che fo? Chi mi soccorre? Ah... di spavento
Così... son io ripiena...
Che a fuggir... che a celarmi... ho forza appena.
[Si nasconde fra' cespugli.]

 

SCENA QUARTA
[Gernando, Enrico in abito indiano dal palischermo, e Silvia in disparte.]

ENRICO
Ma sarà poi, Gernando,
Questo il terren che cerchi?

GERNANDO
    Ah sì; nell'alma
Dipinto mi restò per man d'amore,
E co' palpiti suoi l'afferma il core.

SILVIA
(Potessi almen veder quei volti.)

ENRICO
    E' molto
Facile errar.

GERNANDO
    No, caro Enrico; è desso:
Riconosco ogni sasso. Ecco lo speco,
Dove in placido obblio con Silvia in braccio
Lasciai l'ultima volta
La mia sposa, il mio ben, l'anima mia,
E mai più non la vidi. Ecco ove fui
Da' pirati assalito:
Qua mi trovai ferito;
Là mi cadde l'acciaro. Ah caro amico,
Ogn'indugio è delitto;
Andiam. Tu da quel lato,
Da questo io cercherò. L'isola è angusta;
Smarrirci non possiam. Poca speranza
Ho di trovar Costanza;
Ma l'istesso terreno,
Ch'è tomba a lei, sarà mia tomba almeno.
[Parte.]

 

SCENA QUINTA
[Enrico, e Silvia in disparte.]

SILVIA
(Nulla intender poss'io.)

ENRICO
    Tenero in vero
E' il caso di Gernando. Appena è sposo,
Dee con la sua diletta
Fidarsi al mar. Fra gl'inquieti flutti
Languir la vede; a ristorarla in questa
Spiaggia discende; ella riposa, ed egli
Da barbari rapito,
Tratto a contrade ignote,
In servitù vive tant'anni, e senza
Notizia più del sospirato oggetto.

SILVIA
(Pur si rivolse al fin. Che dolce aspetto!)

ENRICO
Parla a ciascun l'umanità per lui,
L'obbligo a me. La libertà gli deggio,
Primo dono del Ciel. Spietato ogni altro
Sarebbe; ingrato io sono,
Se manco a lui. D'abborrimento è degna
Ogni anima spietata;
Ma l'orror de' viventi è un'alma ingrata.
Benché di senso privo,
Fin l'arboscello è grato
A quell'amico rivo
Da cui riceve umor.
Per lui di frondi ornato
Bella mercé gli rende,
Quando dal sol difende
Il suo benefattor.
[Parte.]

 

SCENA SESTA
[Silvia sola.]

SILVIA
Che fu mai quel ch'io vidi!
Un uom non è: gli si vedrebbe in volto
La ferocia dell'alma. Empi, crudeli
Gli uomini sono, e di ragione avranno
Impresso nel sembiante il cor tiranno.
Una donna né pure: avvolto in gonna
Non è, come noi siam. Qualunque ei sia,
E' un amabile oggetto. Alla germana
A dimandarne andrò... Ma il piè ricusa
D'allontanarsi. Oh stelle!
Chi mi fa sospirar? Perché sì spesso
Mi batte il cor? Sarà timor. No; lieta
Non sarei, se temessi. E' un altro affetto
Quel non so che, che mi ricerca il petto.
Fra un dolce deliro
Son lieta e sospiro:
Quel volto mi piace,
Ma pace non ho.
Di belle speranze
Ho pieno il pensiero;
E pur quel ch'io spero
Conoscer non so.
[Parte.]

 

SCENA SETTIMA
[Gernando solo affannato, indi Enrico.]

GERNANDO
Ah presaga fu l'alma
Di sue sventure. In van m'affretto; in vano
Cerco, chiamo, m'affanno: un'orma, un segno
Dell'idol mio non trovo. Ov'è l'amico?
Forse ei più fortunato... Enrico... Enrico?
Cerchisi... Oh Dio, non posso: oh Dio, m'opprime
La stanchezza e il dolor! Là su quel sasso
Si respiri e si attenda...
[Nell'appressarsi Gernando vede l'iscrizione.]
Come! Note europee? Stelle! Il mio nome!
Chi ve l'impresse e quando? [Legge.]
"Dal traditor Gernando
Costanza abbandonata i giorni suoi
In questo terminò lido straniero..."
Io manco. [S'appoggia al sasso.]

ENRICO
    Ah mi conforta.
Sai Costanza ove sia?

GERNANDO
[Appoggiato al sasso.] Costanza è morta.

ENRICO
Come!

GERNANDO
    Leggi. [Accennando l'iscrizione.]

ENRICO
        Infelice! [Legge piano le prime parole, e poi esclama.]
            "I giorni suoi
In questo terminò lido straniero.
Amico passeggiero,
Se una tigre non sei,
O vendica o compiangi..." Appien compita
L'opra non è.

GERNANDO
    Non le bastò la vita. [Cade piangendo sul sasso.]

ENRICO
Oh tragedia funesta! Ah piangi, amico;
Le lagrime son giuste. Io t'accompagno,
T'accompagnano i sassi. Unico in tanto
Dolor, ma gran conforto, è che rimorsi
Almen non hai. Facesti
Quanto da un uom richiede
E l'amore e la fede,
E la ragione e l'onestà. Non piacque
Al Ciel di secondarti. Or non ti resta
Che piegar, come pio, la fronte umile
Ai decreti supremi; e, come saggio,
Abbandonar questa crudel contrada.

GERNANDO
Abbandonarla! E dove vuoi ch'io vada?
Ove speri ch'io possa
Più riposo trovar! Questo è il soggiorno,
Che il Ciel mi destinò.

ENRICO
    Ma che pretendi?

GERNANDO
Respirar, fin ch'io viva,
Sempre quell'aure istesse,
Che il mio ben respirò: di questi oggetti
Nutrire il mio tormento;
Tornare ogni momento
Questo sasso a baciar; viver penando;
Compire il mio destino
Col suo nome fra' labbri, a lei vicino.

ENRICO
Ah Gernando, ah che dici!
E la patria? E gli amici?
E il vecchio genitor?...

GERNANDO
    L'ucciderei
Se in questo stato io mi mostrassi a lui.
Va'; per me tu l'assisti:
Mi fido di te. Se del mio caso ei chiede,
Raddolcisci narrando il caso mio.

ENRICO
E tu speri ch'io possa...

GERNANDO
    Amico, addio.
Non turbar quand'io mi lagno,
Caro amico, il mio cordoglio:
Io non voglio altro compagno
Che il mio barbaro dolor.
Qual conforto in questa arena
Un amico a me saria?
Ah la mia nella sua pena
Renderebbesi maggior! [Parte.]

 

SCENA OTTAVA
[Enrico solo.]

ENRICO
Non s'irriti fra' primi
Impeti il suo dolor. Merita il caso
Questo riguardo; e s'ei persiste, a forza
Quindi svellerlo è d'uopo. Olà. Dovrebbe
Colà sul palischermo alcun de' nostri
Trovarsi pure. Olà. [Escono due marinari.]
    Conviene, amici,
Rapir Gernando. Ei di dolore insano
Non vuol con noi partir. V'è noto il sito,
Dove colà fra' sassi
Scorre limpido un rio? Selvoso è il loco,
E all'insidie opportuno. Ivi nascosti,
Ch'egli passi aspettate,
E alla nave il traete. Udiste? Andate.
[Partono i marinari.]

 

SCENA NONA
[Enrico innanzi dalla sinistra, Silvia indietro dal medesimo lato, avanzandosi verso la destra senza vederlo.]

SILVIA
Dov'è Costanza? Io non la trovo. A lei
Tutto narrar vorrei.

ENRICO
[Enrico la sente e si rivolge.] Che miro! Ascolta,
Bella ninfa.

SILVIA
    Ah di nuovo
Tu sei qui! [In atto di fuggire.]

ENRICO
    Perché fuggi? Odi un momento.

SILVIA
Che vuoi da me? [Dalla scena.]

ENRICO
    Solo ammirarti, e solo
Teco parlar.

SILVIA
    Prometti
Di parlarmi da lungi. [Dalla scena.]

ENRICO
    Io lo prometto.
(Che sembiante gentil!) [Scostandosi.]

SILVIA
[Avvicinandosi.] (Che dolce aspetto!)

ENRICO
Ma di tanto spavento
Qual cagione in me trovi? Al fin non sono
Un aspide, una fiera. Un uomo al fine
Render non ti dovria così smarrita.

SILVIA
Un uom sei dunque? [Turbandosi.]

ENRICO
    Un uom.

SILVIA
[Fugge spaventata.] Soccorso! Aita!

ENRICO
Ferma. [La raggiunge e la trattiene.]

SILVIA
    Pietà, mercé! Nulla io ti feci:
Non essermi crudel. [Inginocchiandosi.]

ENRICO
[La solleva.] Deh sorgi, o cara:
Cara, ti rassicura. Ah mi trafigge
Quell'ingiusto timore.

SILVIA
(Ch'io mi fidi di lui mi dice il core.)

ENRICO
Di', se cortese sei, come sei bella,
La povera Costanza
Dove, quando restò di vita priva?

SILVIA
Costanza? Lode al Ciel, Costanza è viva.

ENRICO
Viva! Ah, Silvia gentil, ché al sito, agli anni
Certo Silvia tu sei, corri a Costanza.
A Gernando io frattanto...

SILVIA
    Ah dunque è teco
Quel crudel, quell'ingrato?

ENRICO
Chiamalo sventurato,
Ma non crudele. Ah, non tardar: sarebbe
Tirannia differir le gioie estreme
Di due sposi sì fidi.

SILVIA
    Andiamo insieme.

ENRICO
No; se insieme ne andiam, bisogna all'opra
Tempo maggior. Va'. Qui con lei ritorna;
Con lui qui tornerò. [In atto di partire.]

SILVIA
    Senti: e il tuo nome?

ENRICO
Enrico. [Come sopra.]

SILVIA
    Odimi. Ah troppo [Con affetto.]
Non trattenerti.

ENRICO
    Onde la fretta, o cara?

SILVIA
Non so. Mesta io mi trovo
Subito che mi lasci; e in un momento
Poi rallegrar mi sento, allor che torni.

ENRICO
Ed io teco vivrei tutti i miei giorni. [Parte.]

 

SCENA DECIMA
[Silvia sola.]

SILVIA
Che mai m'avvenne! Ei parte,
E mi resta presente? Ei parte, ed io
Pur sempre col pensier lo vo seguendo?
Perché tanto affannarmi? Io non m'intendo.
Non so dir se pena sia
Quel ch'io provo, o sia contento;
Ma se pena è quel ch'io sento,
Oh che amabile penar!
E' un penar, che mi consola,
Che m'invola ogni altro affetto,
Che mi desta un nuovo in petto,
Ma soave palpitar. [Parte.]

 

SCENA UNDICESIMA
[Costanza sola.]

COSTANZA
Ah che in van per me pietoso
Fugge il tempo e affretta il passo:
Cede agli anni il tronco, il sasso;
Non invecchia il mio martìr.
Non è vita una tal sorte;
Ma sì lunga è questa morte,
Ch'io son stanca di morir.
[Finita la seconda parte dell'Aria, s'abbandona a sedere sopra un tronco alla sinistra, e ripete sedendo la prima parte.]
Giacché da me lontana
L'innocente germana
Mi lascia in pace, al doloroso impiego
Torni la man. [Torna al lavoro.]

 

SCENA DODICESIMA
[Gernando e detta.]

GERNANDO
    Giacché il pietoso amico [Senza veder Costanza.]
Lungi ha rivolto il passo,
Quell'adorato sasso
Si torni a ribaciar. Ma... Chi è colei? [La vede.]
Donde venne? Che fa?

COSTANZA
    Tu sudi, e forse
Resterà sempre ignoto,
Infelice Costanza, il tuo lavoro.

GERNANDO
Costanza! Ah sposa!
[L'abbraccia: Costanza si rivolge e lo riconosce.]

COSTANZA
Ah traditore! Io moro. [Sviene sopra il sasso.]

GERNANDO
Mio ben! Non ode. Oh Dio!
Perdé l'uso de' sensi. Ah qualche stilla
Di fresco umor... Dove potrei... Sì; scorre
Non lungi un rio; poc'anzi il vidi... E deggio
L'idol mio così solo
Abbandonar? Ritornerò di volo. [Parte in fretta.]

 

SCENA TREDICESIMA
[Enrico, e Costanza svenuta.]

ENRICO
Ignora il caro amico
Le sue felicità. Da me s'asconde;
Rinvenirlo non so... Ma su quel sasso
Una ninfa riposa! [S'appressa e l'osserva.]
Silvia non è; dunque è Costanza. Oh come
Ha pien di morte il volto!

COSTANZA
[Comincia a rinvenire.] Aimè!

ENRICO
        Costanza?

COSTANZA
Lasciami. [Senza guardarlo.]

ENRICO
    Ah del tuo sposo
Vivi all'amor verace.

COSTANZA
Lasciami, traditor, morire in pace. [Come sopra.]

ENRICO
Io traditor! Non mi conosci.

COSTANZA
    Oh stelle!
[Si rivolge, e lo guarda con ammirazione e spavento.]
Gernando ov'è? Tu non sei più l'istesso?
Ho sognato poc'anzi, o sogno adesso?

ENRICO
Non sognasti, e non sogni. Il tuo Gernando
Vedesti, a quel che ascolto:
Di lui l'amico or vedi.

COSTANZA
E mi ritorna innanzi? Ei che ha potuto
Lasciarmi in abbandono!

ENRICO
    Ah l'infelice
Non ti lasciò, ma fu rapito.

COSTANZA
    Quando?

ENRICO
Quando immersa nel sonno
Tu colà riposavi. [Accennando la grotta.]

COSTANZA
Chi lo rapì?

ENRICO
    Di barbari pirati
Un assalto improvviso. Ei si difese,
Ma, nella man ferito,
Perdé l'acciaro; il numero l'oppresse,
E restò prigionier.

COSTANZA
    Ma sino ad ora...

ENRICO
Ma sino ad or non ebbe
Libero che il pensiero; e a te vicino
Col suo pensier fu sempre.

COSTANZA
    Oh Dio, qual torto,
Mio Gernando, io ti feci!

ENRICO
    Eccolo al fine
Sciolto da' lacci: eccolo a te. Ritorna
Fido e tenero sposo
A renderti il riposo,
A calmare il tuo pianto,
A viver teco ed a morirti accanto.

COSTANZA
Ah mio Gernando, ah dove sei?
[Incamminandosi alla sinistra.]

 

SCENA ULTIMA
[Silvia dalla destra e detti; indi Gernando dal lato medesimo.]

SILVIA
    Costanza,
Costanza? Il tuo Gernando
In van cerchi colà. Per te poc'anzi
Quinci al fonte affrettossi, ed assalito
[Accennando alla destra.]
Ritornar non poté.

COSTANZA
    Stelle! Assalito?
Da chi? Perché?

ENRICO
    Perdona;
Il fallo è mio. Perch'ei ti tenne estinta,
E qui restar volea, rapirlo a forza
A' nostri imposi.

COSTANZA
    Andiamo
A toglierlo d'impaccio. [Vuol partire.]

SILVIA
    Aspetta: io tutto
Già lor spiegai.

COSTANZA
    Che aspetti ancor? Tant'anni
Non attesi abbastanza? E' tempo, è tempo
Che di mia sorte amara
Io trovi il fine.
[Rivolgendosi per partire si trova fra le braccia di Gernando.]

GERNANDO
    In queste braccia, o cara.

COSTANZA
Ed è vero?

GERNANDO
    E non sogno?

COSTANZA
Gernando è meco?

GERNANDO
    Ho la mia sposa accanto?

ENRICO
Quegli amplessi, quel pianto,
Quegli accenti interrotti
Mi fanno intenerir.

SILVIA
[Va ad Enrico.] Che pensi, Enrico?
Di te Gernando è più gentile. Osserva
Com'ei parla a Costanza;
E tu nulla mi dici.

ENRICO
    Eccomi pronto,
Se pur caro io ti sono,
A dir ciò che tu vuoi.

SILVIA
[Tenera e lieta molto.] Se mi sei caro?
Più della mia cervetta.

ENRICO
    E ben mi porgi
Dunque la man: sarai mia sposa.

SILVIA
    Io sposa?
Oh questo no. Sarei ben folle. In qualche
Isola resterei
A passar solitaria i giorni miei.

COSTANZA
No, Silvia, il mio Gernando
Non mi lasciò: tutto saprai. Non sono
Gli uomini, come io dissi,
Inumani ed infidi.

SILVIA
Quando Enrico conobbi, io me ne avvidi.

COSTANZA
A torto gli accusai. Dell'error mio
Or mi disdico.

SILVIA
    E mi disdico anch'io. [Porgendo la mano ad Enrico.]

 

CORO
Allor che il ciel s'imbruna
Non manchi la speranza
Fra l'ire del destin.
Si stanca la Fortuna;
Resiste la Costanza;
E si trionfa al fin.

 

[da: Uroboro 6, Campi Bisenzio, Edizioni Mediateca, 1995.]


 
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