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MADRIGALI DEL CINQUECENTO

Biblioteca Classica Uroboro

a cura di Paolo Pettinari
Edizioni Mediateca - 2001

 

Fonti

Ludovico Ariosto, Opere minori, a cura di Cesare Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954.
Lirici del Cinquecento, a cura di L.Baldacci, Firenze, Salani, 1957 (n.ed. Milano, Longanesi, 1975).
Lirici del Cinquecento, a cura di Daniele Ponchiroli, n.ed. a cura di G.Davico Bonino, Torino, Utet, 1968.
"Poesia", I, 12, 1988, pp.60-61.
Poesia italiana. Il Cinquecento, a cura di Giulio Ferroni, Milano, Garzanti, 1978.
Gaspara Stampa, Rime, a cura di Rodolfo Ceriello, Milano, Rizzoli, 1954 (nuova ed. 1976).
Giovan Battista Strozzi, Madrigali inediti, a cura di M.Ariani, Urbino, Argalia, 1975.

(Nota: i madrigali di Torquato Tasso saranno raccolti in una sezione a parte.)

 

Indice alfabetico degli autori
(Clic sui pallini verdi)

Vai ai testi ARETINO Pietro
Vai ai testi ARIOSTO Ludovico
Vai ai testi BEMBO Pietro
Vai ai testi BUONARROTI Michelangelo
Vai ai testi COLONNA Vittoria
Vai ai testi COPPETTA BECCUTI Francesco
Vai ai testi DI TARSIA Galeazzo
Vai ai testi GAMBARA Veronica
Vai ai testi GIUSTINIAN Orsatto
Vai ai testi GRADENIGO Giorgio
Vai ai testi GUIDICCIONI Giovanni
Vai ai testi MARTELLI Ludovico
Vai ai testi PIGNA Giovan Battista
Vai ai testi STAMPA Gaspara
Vai ai testi STROZZI Giovan Battista
Vai ai testi TRANSILLO Luigi
Vai ai testi TRISSINO Giovan Giorgio
Vai ai testi VENIERO Domenico

*****

Torna all'indice PIETRO ARETINO (1492-1556)

*
Poi che il mondo no crede
Che in me, d'amor mercede, ogni mal sia,
E ogni ben ne la nimica mia,
O empio re de le perdute genti,
E tu dio degli dèi,
Questa grazia vorrei:
Ch'un togliesse a le fiamme, ai mostri e al gelo
La più tormentata alma;
E l'altro, la più alma
Agli angeli del Cielo;
E la mal nata stesse una ora meco,
E la beata seco.
Son certo che la rea a ognun direbbe,
Fuggendo i miei lamenti:
"Io ho del fallir mio minor tormenti".
E la buona contenta non vorebbe,
Presa dal volto adorno,
Lassù far più ritorno.
Perché in me è un più crudele inferno,
E un paradiso in lei più sempiterno.
 

*
Madonna, io 'l vo' pur dir che ognun m'intenda,
Io vi amo perché io ho poca faccenda:
Ma se io comperassi
Un quattrin l'uno i passi,
A non dirvi bugia,
Men d'una volta il mese vi vedria.
O voi potresti dire
Che io ho detto che il foco
Mi ancide, mercé vostra, a poco a poco:
Egli è ver che io l'ho detto, ma per fola,
E mento mille volte per la gola.
 

*
L'esser prive del Cielo
Non sono oggi i tormenti
De le mal nate genti:
Sapete voi che doglia
L'alme dannate serra?
Il non poter mirar l'Angela in terra.
Sol la invidia e la voglia
Ch'elle han del nostro bene,
E 'l non aver mai di vederlo spene,
Le affligge a tutte l'ore
Ne l'eterno dolore:
Ma se concesso a lor fosse il suo viso,
Fòra lo inferno un nuovo paradiso.

*****

Torna all'indice LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533)

*
Se mai cortese fusti,
Piangi, Amor, piangi meco i bei crin d'oro,
Ch'altri pianti sì iusti unqua non fòro.
Come vivace fronde
Tòl da robusti rami aspra tempesta,
Così le chiome bionde,
Di che più volte hai la tua rete intesta,
Tolt'ha necessità rigida e dura
Da la più bella testa
Che mai facessi o possa far Natura.
 

*
Quando bellezza, cortesia e valore
Vostri o con gli occhi o col pensier contemplo,
Madonna, io cerco e non vi trovo essemplo.
Io sento allor mirabilmente Amore
Levarsi a volo e, senza di me uscire,
Seco trar così in alto il mio desire,
Che non l'osa seguire
La speme, che le par che quella sia
Per lei troppo erta e troppo lunga via.
 

*
Amor, io non potrei
Aver da te se non ricca mercede,
Poi che quant'amo lei Madonna vede.
Deh! fa' ch'ella sappia anco
Quel che forse non crede, quanto io sia
Già presso a venir manco,
Se più nascosta l'è la pena mia.
Ch'ella lo sappia, fia
Tanto solevamento a' dolor miei
Ch'io ne vivrò, dove or me ne morrei.
 

*
Per gran vento che spire,
Non si estingue, anzi più cresce un gran foco,
E spegne e fa sparire ogn'aura il poco.
Quanto ha guerra maggiore
Intorno in ogni loco e in su le porte,
Tanto più un grande amore
Si ripara nel core, e fa più forte.
D'umile e bassa sorte,
Madonna, il vostro si potria ben dire,
Se le minacce l'han fatto fuggire.
 

*
Oh se, quanto è l'ardore,
Tanto, Madonna, in me fusse l'ardire,
Forse il mal ch'ho nel core osarei dire.
A voi devrei contarlo,
Ma per timor, oimé! d'un sdegno, resto,
Che faccia, s'io ne parlo,
Crescerli il duol sì che l'uccida presto;
Pur io vi vuo' dir questo:
Che da voi tutto nasce il mio martìre,
E se 'l ne more, il fate voi morire.
 

*
Se voi così mirasse alla mia fede
Com'io miro a vostr'occhi e a vostre chiome,
Ecceder l'altre la vedreste, come
Vostra bellezza ogni bellezza eccede.
E come io veggio ben che l'una è degna,
Per cui né lunga servitù né dura
Noiosa mai debbia parermi o grave,
Così vedreste voi che vostra cura
Dev'esser che quest'altra si ritegna
Sotto più lieve giogo e più soave,
E con maggior speranza che non ave
D'esser premiata, e se non ora a pieno
Come devriasi, almeno
Con un dolce principio di mercede.
 

*
A che più strali, Amor, s'io mi ti rendo?
Lasciami viva, e in tua prigion mi serra.
A che pur farmi guerra,
S'io ti do l'arme e più non mi difendo?
Perché assalirmi ancor, se già son vinta?
Non posso più; questo è quel fiero colpo
Che la forza, l'ardir, che 'l cor mi tolle;
L'usato orgoglio ben danno ed incolpo.
Or non recuso, di catena cinta,
Che mi meni captiva al sacro colle;
Lasciarmi viva, e molle
Carcere puoi sicuramente darmi;
Ché mai più, signor, armi,
Per esser contra a' tuoi disii, non prendo.
 

*
La bella donna mia d'un sì bel fuoco,
E di sì bella neve ha il viso adorno,
Ch'Amor, mirando intorno
Qual di lor sia più bel, si prende giuoco.
Tal è proprio a veder quell'amorosa
Fiamma che nel bel viso
Si sparge, ond'ella con soave riso
Si va di sue bellezze inamorando;
Qual è a veder, qualor vermiglia rosa
Scuopra il bel paradiso
De le sue foglie, allor che 'l sol diviso
Da l'orïente sorge il giorno alzando.
E bianca è sì come n'appare, quando
Nel bel seren più limpido la luna
Sovra l'onda tranquilla
Coi bei tremanti suoi raggi scintilla.
Sì bella è la beltade che in quest'una
Mia donna hai posto, Amor, e in sì bel loco,
Che l'altro bel di tutto il mondo è poco.
 

*
Occhi, non v'accorgete,
Quando mirate fiso
Quel sì soave ed angelico viso,
Che come cera al foco,
Over qual neve ai raggi del sol sète?
In acqua diverrete,
Se non cangiate il loco
Di mirar quella altiera e vaga fronte:
Ché quelle luci belle, al sole uguali,
Pòn tant'in voi, che vi farann'un fonte.
Escon sempre da lor or foco or strali.
Fuggite tanti mali;
Se non, vi veggio alfin venir nïente,
Ed io cieco restar eternamente.
 

*
Fingon costor che parlan de la Morte
Un'effigie ad udirla troppo ria;
Ed io che so che di summa bellezza,
Per mia felice sorte,
A poco a poco nascerà la mia,
Colma d'ogni dolcezza,
Sì bella me la formo nel disio,
Che 'l pregio d'ogni vita è 'l morir mio.
 

*
Quel foco, ch'io pensai che fuss'estinto
Dal tempo, da gli affanni ed il star lunge,
Signor, pur arde, e cosa tal v'aggiunge
Ch'altro non sono ormai che fiamma ed ésca.
La vaga fera mia che pur m'infresca
Le care antiche piaghe,
Acciò mai non s'appaghe
L'alma del pianto che pur or comincio;
Errando lungo il Mincio
Più che mai bella e cruda oggi m'apparve,
Ed in un punto, ond'io ne muoia, sparve.
 

*
Quando ogni ben de la mia vita ride,
I dolci baci niega;
Se piange, allor al mio voler si piega;
Così suo mal mi giova e 'l ben m'accide.
Chi non sa come stia fra il dolce il fèle
Provi, come provo io,
Questo ardente disio,
Che mi fa lieto viver e scontento.
Così nasce per me di amaro il mèle,
Dolor del riso pio
Che 'l bel volto giulìo
Lieto m'apporta sol per mio tormento.
Miseri amanti, senza più contesa,
Temete insieme e sperate ogni impresa.

*****

Torna all'indice PIETRO BEMBO (1470-1547)

*
Amor, perché m'insegni andare al foco,
Dove 'l mio cor si strugge,
Seguendo chi mi fugge,
Pregando chi 'l mio duol si torna in gioco?
Credea trovar ne l'amorosa tresca
Più dolce ogni fatica:
Ahi del mio ben nemica,
Che 'l piacer manca e 'l tormento rinfresca.
Donne, che non sentiste ancor d'Amore,
Quanto beate sète;
Se voi non v'accorgete,
Mirate quanto è grave il mio dolore.
 

*
Amor, d'ogni mia pena io ti ringrazio,
Sì dolce è 'l tuo martire:
Ogni d'altro gioire,
Signor, è doglia, e festa ogni tuo strazio.
Ben mi credetti già, che grave peso
Fosse, Amor, la tua salma:
Or veggio, e te 'n chier l'alma
Mercé, che tu da me non eri inteso.
Giurerei, donne amanti, a l'alta e fina
Mia gioia ripensando,
Ch'una ancilletta, amando,
Lo stato agguagli d'ogni gran reina.
 

*
Che ti val saettarmi, s'io già fore
Esco di vita, o niquitoso arcero?
Di questa impresa tua, poi ch'io ne pero,
A te non pò venir più largo onore.
Tu m'hai piagato il core,
Amor, ferendo in guisa a parte a parte,
Che loco a nova piaga non pò darte,
Né di tuo stral sentir fresco dolore.
Che vòi tu più da me? Ripon giù l'arme;
Vedi ch'io moro: ormai che pòi tu farme?

*****

Torna all'indice MICHELANGELO BUONARROTI (1475-1564)

*
Chi è quel che per forza a te mi mena,
Oilmè, oilmè, oilmè,
Legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se tu incateni altrui senza catena,
E senza mane o braccia m'hai raccolto,
Chi mi difenderà dal tuo bel volto?
 

*
Come può esser ch'io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
Chi m'ha tolto a me stesso,
C'a me fusse più presso
O più di me potessi che poss'io?
O Dio, o Dio, o Dio,
Come mi passa el core
Chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
C'al core entra per gli occhi,
Per poco spazio dentro par che cresca?
E s'avvien che trabocchi?
 

*
Com'arò dunche ardire
Senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n vita,
S'io non posso al partir chiedervi aita?
Que' singulti e que' pianti e que' sospiri
Che 'l miser core voi accompagnorno,
Madonna, duramente dimostrorno
La mia propinqua morte e ' miei martiri.
Ma se ver è che per assenzia mai
Mia fedel servitù vadia in oblio,
Il cor lasso con voi, che non è mio.
 

*
Gli occhi mie vaghi delle cose belle
E l'alma insieme della suo salute
Non hanno altra virtute
C'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.
Dalle più alte stelle
Discende uno splendore
Che 'l desir tira a quelle,
E qui si chiama amore.
Né altro ha il gentil core
Che l'innamori e arda, e che 'l consigli,
C'un volto che negli occhi lor somigli.
 

*
Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo
Qual più sicuro è, che non sia men forte
Che 'l pianger e 'l pregar? E non m'aita.
Amore e crudeltà m'han posto il campo:
L'un s'arma di pietà, l'altro di morte;
Questa n'ancide, e l'altra tien in vita.
Così l'alma impedita
Del mio morir, che sol poria giovarne,
Più volte per andarne
S'è mossa là dov'esser sempre spera,
Dov'è beltà sol fuor di donna altiera;
Ma l'magine vera,
Della qual vivo, allor risorge al core,
Perché da morte non sia vinto amore.
 

*
Ancor che 'l cor già molte volte sia
D'amore acceso e da troppi anni spento,
L'ultimo mie tormento
Sarie mortal senza la morte mia.
Onde l'alma desia
De' giorni mie, mentre c'amor m'avvampa,
L'ultimo, primo in più tranquilla corte.
Altro refugio o via
Mie vita non iscampa
Dal suo morir, c'un aspra e crudel morte;
Né contr'a morte è forte
Altro che morte, sì c'ogn'altra aita
E' doppia morte a chi per morte ha vita
 

*
Sì come per levar, donna, si pone
In pietra alpestra e dura
Una viva figura,
Che là più cresce u' più la pietra scema;
Per l'alma che pur trema,
Cela il superchio della propria carne
Co' l'inculta sua cruda e dura scorza.
Tu pur dalle mie streme
Parti puo' sol levarne,
Ch'in me non è di me voler né forza.
 

*
Per qual mordace lima
Dicresce e manca ognor tuo stanca spoglia,
Anima inferma? Or quando fie ti scioglia
Da quella il tempo, e torni ov'eri, in cielo,
Candida e lieta prima,
Deposto il periglioso e mortal velo?
C'ancor ch'i' cangi 'l pelo
Per gli ultim'anni e corti,
Cangiar non posso il vecchio mie antico uso,
Che con più giorni più mi sforza e preme.
Amore, a te nol celo,
Ch'i' porto invidia a' morti,
Sbigottito e confuso,
Sì di sé meco l'alma trema e teme.
Signor, nell'ore streme,
Stendi ver'me le tuo pietose braccia,
Tomm'a me stesso e famm'un che ti piaccia.
 

*
La nuova beltà d'una
Mi sprona, sfrena e sferza;
Né sol passato è terza,
Ma nona e vespro, e prossim'è la sera.
Mie parto e mie fortuna,
L'un co' la morte scherza,
Né l'altra dar mi può qui pace intera.
Il c'accordato m'era
Col capo bianco e co' molt'anni insieme,
Già l'arra in man tene' dell'altra vita,
Qual ne promette un ben contrito core.
Più perde chi men teme
Nell'ultima partita,
Fidando sé nel suo proprio valore
Contr'a l'usato ardore:
S'a la memoria sol resta l'orecchio,
Non giova, senza grazia, l'esser vecchio.
 

*
Come portato ho già più tempo in seno
L'immagin, donna, del tuo volto impressa,
Or che morte s'appressa,
Con privilegio Amor ne stampi l'alma,
Che del carcer terreno
Felice sia 'l dipor suo grieve salma.
Per procella o per calma
Con tal segno sicura,
Sie come croce contro a' suo avversari;
E donde in ciel ti rubò la natura,
Ritorni, norma agli angeli alti e chiari,
C'a rinnovar s'impari
Là sù pel mondo un spirto in carne involto,
Che dopo te gli resti il tuo bel volto.

*****

Torna all'indice VITTORIA COLONNA (1490-1547)

*
Dal soverchio desio nasce la tema
E fa che l'alma in un gioisca e gema;
Sente l'ardor che 'l miser core offende,
Quando dal suo imperfetto
Il sublime valor non si comprende.
Ma poi che 'l lume irradia l'intelletto,
Il mal fugge e la noia,
E sol m'apporta gioia,
E fa l'altezza del mio bel pensiero
Il falso falso, e 'l ver più che mai vero.

*****

Torna all'indice FRANCESCO COPPETTA BECCUTI (1509-1553)

*
"Voi, caduchi ligustri,
Col vivace amaranto
E la volubil Clizia e 'l molle acanto,
E voi, tra' fiori illustri,
Narciso, Aiace, Adon, Croco e Iacinto,
E la porpurea rosa 'l bianco giglio
E di perso e di giallo e di vermiglio
Ogni cespo dipinto
S'inchini a questa sola
Amorosetta e candida viola".
Così ragiona il re de' fiumi, ed io,
Lungi così bel fior, piango e disio.

*****

Torna all'indice GALEAZZO DI TARSIA (1520-1553)

*
Palma leggiadra e viva,
Fondata in chiaro e lucido diamante,
Che tocchi 'l ciel con l'auree cime sante,
Se cotanto sei schiva
Della vista d'indegno e basso amante
E celartene brami,
Da me non torcer lo splendor de' rami:
Ché nel celeste verde
Occhio frale e terren tosto si perde;
Ma se altronde riluce,
Quasi in limpido corpo eterna luce,
Nel cor ti veggio ove per sé rinverde.

*****

Torna all'indice VERONICA GAMBARA (1485-1550)

*
Occhi lucenti e belli,
Com'esser può che in un medesmo istante
Nascon da voi sì nove forme e tante?
Lieti, mesti, superbi, umili, alteri
Vi mostrate in un punto, onde di speme
E di timor m'empiete,
E tanti effetti dolci, acerbi e fieri
Nel core arso per voi vengono insieme
Ad ognor che volete.
Or poi che voi mia vita e morte sete,
Occhi felici, occhi beati e cari,
Siate sempre sereni, allegri e chiari.

*****

Torna all'indice ORSATTO GIUSTINIAN (1538-1603)

*
Costume è d'ogni amante,
Per far parer più grave il suo martire,
Fingersi di morire.
Ma tu frena il desio,
Se pur è ver che ti conduca a morte,
E cerca in novo amor più lieta sorte!
Esser tua non poss'io:
Arde d'un'altra fiamma il petto mio.

*****

Torna all'indice GIORGIO GRADENIGO (1522-1600)

*
Vermiglie rose, che col novo giorno
V'aprite, uscendo in luce fresche e liete,
E di color vincete
De la nascente aurora il viso adorno;
Deh se vergine man prima vi colga,
Ch'Apollo invidioso
Arda nel maggior caldo i vostri onori;
S'avvien che dolcemente a voi rivolga
Il bel guardo amoroso
Quella che adorna il ciel d'almi splendori,
E voi sparga d'odori;
Destate, prego, ne l'altera mente
La memoria dolente
Del bell'Adone estinto,
E la pietà che Amore
Stillò nel volto di colei ch'ha tinto
Voi del suo vivo umore,
Che forse il crudo scempio e i dolor miei
Render potrian pietosa ancora lei.
 

*
Amorose viole, che spargete
L'odor soave, che portate ascolto
Nel pallidetto volto,
Su l'ali fresche di quest'aure liete;
Se per favor de le benigne stelle
La mia donna vi coglie, e in sen vi tiene
Sì caramente strette, che l'umore,
Che in vita vi mantiene
Col celeste calore,
Si dissolva e distilli per le belle
Membra leggiadre e snelle;
Pregovi, onor de' fiori, alme figliuole
De la terra e del sole,
Spirate fuor con l'alma dolcemente
Questo ch'io spargo in voi sospiro ardente.
 

*
Nov'erbe e vaghi fiori
Colse nel suo terrestre paradiso
L'altr'ier madonna al tramontar del giorno,
Mentre al seren de gli occhi e del bel viso
Seco le Grazie e' pargoletti Amori
Facean lieto soggiorno;
Poi disse, lampeggiando un dolce riso:
"Questi fian refrigerio a la tua fiamma".
Ma, lasso, una sol dramma
L'un contrario de l'altro in me non spense:
Anzi 'l gelido umor più 'l foco accense.

*****

Torna all'indice GIOVANNI GUIDICCIONI (1500-1541)

*
Il bianco e dolce cigno
Cantando muore, ed io
Piagnendo giungo al fin del viver mio.
Strana e diversa sorte:
Ch'ei muore sconsolato,
Ed io moro beato!
Dolce e soave morte,
A me vie più gradita
Ch'ogni gioiosa vita!
Morte, che nel morire
M'empi di gioia tutto e di desire,
Per te son sì felice,
Ch'io moro e nasco al par della fenice.
 

*
Quando giù nel mio core
Sonan que' dolci accenti
(La tua mercede, Amore),
Dolor non sento alcun de' miei tormenti;
Ma quando alzo le luci a mirar quelle
Più che 'n guisa mortal serene stelle,
M'abbonda al cor tanta dolcezza, ch'io
Né vita più né libertà desio;
E s'io morissi in sì soave stato,
Non visse uom mai, quant'io morrei, beato.
 

*
Se a caso o ad arte miro
Quegli occhi, dove Amor sovente mostra
Il suo valor e l'alta gloria vostra,
Per gran dolcezza fuor l'anima spiro;
E se l'inferma luce a tanto oggetto
Abbasso poi pian piano
In quella dolce disiata mano,
Quanta gioia allor, quanto
Sento estremo diletto!
E se non fosse poi che quel bel guanto,
Ricco ed avaro tanto,
Mi copre quel che più bramo e desio,
Ben non fu al mondo mai qual fôra il mio.
 

*
Iniquissimo sdegno,
Che 'n sul fiorir di mie speranze hai spento
Quel ben che sol potea farmi contento,
Pàrtiti dal bel petto, amaro sdegno,
Ché dal mio sento già l'alma partire.
Crudel! d'ogni speranza e ogni desire
M'hai tolto in mezzo e tronco ogni disegno.
Pàrtiti dal bel petto e dal bel volto,
Amaro sdegno, e ponmi ove m'hai tolto.
Che s'io ritrovo ancora,
Non dico, lieta, ma posata un'ora,
Sì come io bramo e sì come dovrei,
Io ne vivrò, dov'or me ne morrei.

*****

Torna all'indice LUDOVICO MARTELLI (1503-1531)

*
Né bel raggio di sole,
Né ciel seren pien d'ogni vaga stella,
Né fresca riva e bella
Pur or d'erbe vestita e di viole;
Né mar tranquillo, cui dolce aura suole
Percuoter sì ch'umilemente ondeggia;
Né gemma d'Oriente,
Né terso oro lucente,
Né cosa rara, o degna mai ch'uom veggia,
Piacer mi puon più che i begli occhi santi,
Speme e refugio dei cortesi amanti.

*****

Torna all'indice GIOVAN BATTISTA PIGNA (1529-1575)

*
Sì come il ciel s'ingemma
Con le sue luci d'oro,
Così dal bel tesoro
Il ben di Dio qua scopre in una gemma.
Quest'è quel prezioso neo gentile,
Ch'amor dal suo focile
Trasse da l'alto chiostro,
E il saettò nel dolce viso vostro;
E indi abbaglia e prende
Ogni amator che gli occhi suoi vi stende.
 

*
Uscendo questa, che cotanto luce,
A rischiarar omai la nostra luce,
Vi fur d'intorno i pargoletti Amori
Che le facelle accese,
Tratti dal ben, ch'in lei Dio mandò fori:
Chi a gli avori, chi a i soli,
E chi a le perle e a i rubin s'attese;
E mentre questi i voli
A sì gioiosa parte in fretta tese,
Da gli ardenti licori
Là sopra il labro una tra l'altre stille
Percossa l'ebbe: e un neo spumò dal foco;
Che da quel dolce loco
Amorose invisibili faville
Versa tra riso e gioco,
Inamorando i cori a mille a mille.
 

*
Quasi leggiadre bende
Dianzi a lume tranquillo,
Copron le membra l'alma, ond'io sfavillo.
E sì candida spoglia
Ha questa viva luce,
Ch'a gli occhi miei traluce
Sua chiusa, aperta, onesta, atroce voglia;
E nel terrestre velo
M'asconde e mostra il cielo.
 

*
Credete voi che mai celar possiate
L'interna aspra beltate
Con la celeste che di fuor mostrate?
Natura non intende
Coprir, sotto lo scudo
De le corporee, anzi divine bende,
Diaspro, che forma il cor, lucido e crudo.
Da l'empio arciero ignudo
Questo consiglio pende:
Vuol che l'amante a sì vive bellezze
Visibil morte apprezze.
 

*
La dipartita è amara:
Ma perch'è dolce e cara
La giunta del ritorno,
Da l'infelice giorno
De la partenza ria
Nasce la gioia mia.
 

*
Il rugiadoso impronto
Del cerchietto vermiglio
Di rose fresche nate in paradiso,
Mentre nel dolce viso
Del leggiadretto figlio
Dolcemente splendea,
Trassemi un bacio a la dolcezza rea:
Perché sotto ascondea
Foco d'amor cocente,
Che, più occulto, più strugge e men si sente.
 

*
Vago e lucente filo,
Che madonna dal mio trasse al suo petto,
E la catena in mezzo avinse stretto,
Ah, come il cor m'annodi
Sul sen che baci e godi!
Ella nel sen interno
Parte sentisse del mio laccio eterno!
Filo vago e lucente,
Ch'hai le mie luci spente,
Perché almen in tua vece
Formar quel nodo a l'alma mia non lece?

*****

Torna all'indice GASPARA STAMPA (1523-1554)

*
"Dimmi per la tua face,
Amor, e per gli strali,
Per questi che mi dàn colpi mortali,
E quella, che mi sface,
Onde avien che non osi
Ferir il mio signore,
Altero de' tuoi strazi e del mio core,
In sembianti pietosi?"
"Ove anniderò poi"
Mi risponde ei, "s'io perdo gli occhi suoi?"
 

*
Così m'impresse al core
La beltà vostra Amor co' raggi suoi,
Che di me fuor mi trasse e pose in voi;
Or che son voi fatt'io,
Voi meco una medesma cosa sète,
Onde al ben, al mal mio,
Come al vostro, pensar sempre devete;
Ma pur, se al fin volete
Che 'l vostro orgoglio la mia vita uccida,
Pensate che di voi sète omicida.
 

*
L'empio tuo strale, Amore,
E' più crudo e più forte
Assai che quel di Morte;
Ché per Morte una volta sol si more,
E tu col tuo colpire
Uccidi mille, e non si può morire.
Dunque, Amore, è men male
La morte che 'l tuo strale.
 

*
Io veggio spesso Amore
Girarsi intorno agli occhi chiari e vaghi,
Dolci del mio cor maghi,
De l'amato e gradito mio signore.
Quinci par che saetti,
E sian gli strali suoi gioie e diletti;
Queste son armi, che danno altrui vita
In luogo di ferita.
 

*
Sapete voi perché ognun non accende,
E non empie d'amore,
Infinita beltà del mio signore?
Però ch'ognun, com'io, non la comprende,
A cui per sorte è dato
Vedervi quel, ch'a tant'altri è vietato;
Ché, se non fosse ciò, le pietre e l'erbe
Spirerebbero ardore,
E girian di tal fiamma alte e superbe.
 

*
Se tu credi piacere al mio signore,
Come si vede chiaro,
Amor empio ed avaro,
Poi che non gli hai pur tócco l'alme e 'l core;
E, come è anche degno,
Poi che con gli occhi suoi mantieni 'l regno;
Perché vuoi pur ch'io moia?
Per dargli biasmo e noia?
Biasmo d'esser crudele,
Avendo uccisa donna sì fedele;
Noia, perché, se vive del mio strazio,
Chi lo farà poi sazio?
 

*
Il cor verrebbe teco,
Nel tuo partir, signore,
S'egli fosse più meco,
Poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
Che sol mi son restati
Fidi compagni e grati,
E le voci e gli omei;
E, se vedi mancarti la lor scorta,
Pensa ch'io sarò morta.
 

*
Qual fosse il mio martire
Nel vostro dipartire,
Voi 'l potete di qui, signor, stimare,
Che mi fu tolto infin il lagrimare.
E l'umor, che, per gli occhi uscendo fore,
Suol sfogarmi 'l dolore,
In quell'amara e cruda dipartita
Mi negò la sua aita.
O mio misero stato,
D'altra donna non mai visto o provato,
Poi che quello, ond'Amor è sì cortese,
Nel maggior uopo a me sola contese!
 

*
Signor, per cortesia,
Non mi dite che, quand'andaste via,
Amor mi negò 'l pianto
Perché, vedendo in me già spento il foco,
L'acqua non v'avea loco
Per temperarlo alquanto;
Anzi dite più tosto che fu tanto
In quel punto l'ardore,
Che disseccò l'umore;
E non potei mostrare
L'acerba pena mia col lagrimare,
Per ciò che 'l corpo mio, d'ogni umor casso,
O restò tutto foco, o tutto sasso.
 

*
Le pene de l'inferno insieme insieme,
Appresso il mio gran foco,
Tutte son nulla o poco;
Perch'ove non è speme
L'anima risoluta al partir sempre
S'avezza al duol, che mai non cangia tempre.
La mia è maggior noia,
Perché gusto talor ombra di gioia
Mercé de la speranza;
E questa varia usanza
Di gioir e patire
Fa maggior il martire.
 

*
Se 'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore,
E' 'l dolore e 'l martire,
Come poss'io morire
Nodrita dal dolore?
Il semplicetto pesce,
Che solo ne l'umor vive e respira,
In un momento spira
Tosto che de l'acqua esce;
E l'animal, che vive in fiamma e 'n foco,
Muor, come cangia loco.
Or, se ti vòi ch'io moia,
Amor, trammi di guai e pommi in gioia;
Perché col pianto, mio cibo vitale,
Tu non mi puoi far male.
 

*
Beato insogno e caro,
Che sotto oscuro velo m'hai mostrato
Il mio felice stato,
Qual potrà ingegno chiaro,
Quant'io debbo e vorrei, giamai lodarte
In vive voci o 'n carte?
Io per me farò fede,
Dovunque esser potrà mia voce udita,
Che, sol la tua mercede,
Io son restata in vita.
 

*
Deh, farà mai ritorno agli occhi miei
Quel vivo e chiaro lume,
Ond'io vivo e quei veggon per costume?
Potran mai le mie lagrime e gli omei
Far molle chi di lor si pasce e vive,
Che sta da me lontano, e non mi scrive?
Aspro e selvaggio core,
Quest'è la fé d'Amore?
 

*
Conte, dov'è andata
La fé sì tosto, che m'avete data?
Che vuol dir che la mia
E' più costante, che non era pria?
Che vuol dir che, da poi
Che voi partiste, io son sempre con voi?
Sapete voi quel che dirà la gente,
Dove forza d'Amor punto si sente?
"O che conte crudele!
O che donna fedele!"
 

*
Spesso ch'Amor con le sue tempre usate
Assal la vostra misera Anassilla,
Vi prenderia di lei, conte, pietate
In vederla et udilla;
Perché le pene sue, i suoi cordogli
Rompono i duri scogli;
Ma voi state lontano,
Ed ella piange invano.
Veggano Amore e 'l ciel, che 'l tutto vede,
La vostra rotta e la sua salda fede.
 

*
S'io credessi por fine al mio martìre,
Certo vorrei morire;
Perché una morte sola
Non occide, consola.
Ma temo, lassa me, che dopo morte
L'amoroso martìr prema più forte;
E questo posso dirlo, perché io
Moro più volte, e pur cresce il disio.
Dunque per men tormento
Di vivere e pensar, lassa, consento.
 

*
Con quai segni, signor, volete ch'io
Vi mostri l'amor mio,
Se, amando e morendo ad ora ad ora,
Non si crede per voi, lassa, ch'io mora?
Aprite lo mio cor, ch'avete in mano,
E, se l'imagin vostra non v'è impressa,
Dite ch'io non sia dessa;
E, s'ella v'è, a che pungermi invano
L'alma di sì crudi ami
Con dir pur ch'io non v'ami?
Io v'amo ed amerò fin che le ruote
Girin del sol, e più, se più si puote;
E, se voi nol credete,
E' perché crudo séte.
 

*
Dal mio vivace foco
Nasce un effetto raro,
Che non ha forse in altra donna paro:
Che, quando allenta un poco,
Egli par che m'incresca,
Sì chiaro è chi l'accende e dolce l'ésca.
E, dove per costume
Par che 'l foco consume,
Me nutre il foco e consuma il pensare
Che 'l foco abbia a mancare.
 

*
Deh, perché soffri, Amor, che disiando
La mia vivace fede
Resti senza mercede,
Anzi di vita e di me stessa in bando?
S'io amo ed ardo fuor d'ogni misura,
Perché si prende a gioco
L'amor mio e 'l mio foco
Chi mi vede morir e non ha cura?
Gli orsi, i leoni e le più crude fère
Move talor pietade
Di chi con umiltade
Nel maggior uopo suo mercé lor chiere;
E quella cruda voglia,
Che vive di martire,
Allor suol più gioire,
Quand'avien ch'io più sfaccia e più m'addoglia.

*****

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*
In volando per l'aere il mio cor lieve
Come augellin fu colto
A bel filo d'or teso infra la neve
All'aria del bel volto:
Videlo empio fanciullo, e così involto
Quasi scherzando il prese,
E 'n quelle fiamme accese
De' begli occhi avventollo; ond'ei pur arse,
E, fumo ed ombra, via subito sparse.
 

*
Or chi, Filli beata,
Il bell'oro t'increspa? La bell'ora.
E la guancia rosata
Chi di sì fresche rose ti colora?
Ogni mattin l'aurora.
E chi gli occhi ti accende e chi gli muove?
Amore, e 'l sol che non s'annida altrove.
 

*
Dolcissimo Riposo
Della Notte figliuol, del Sogno padre,
Che 'nvisibile spieghi per l'ombroso
Aer quelle penn'adre,
Ecco il cieco silenzio, eccone a squadre
Le mute ombre notturne al suo soggiorno;
Deh per quest'occhi omai
Ché non fai nel mio cor fresco ritorno?
Nel mio cor sì, che mai non vide giorno.
 

*
Ecco l'alba; ohimè che nuovo campo
Di fatiche e di lagrime vegg'io?
E chi schermo, chi scampo
Ne 'nsegna altri che Morte al pianger mio?
Deh giorno, oh giorno rio,
Vatten, fuggine a volo
Col mio duolo; tu mia diletta vera,
Torna, ma torna eterna, alma mia sera.
 

*
Ombra io seguo che piagge e monti cuopre;
Tutti per l'oscurissima foresta
Del mondo alfin discuopre
Aguati con sua face atra funesta;
Fuma e sfavilla questa
Sempre; né mai per onda né per vento
Si spegne, né si strugge
Per tempo od altro; fugge di spavento
L'ardito, il vile, il misero, il contento.
 

*
Vidi anch'io tutta ignuda,
Ma sola, e 'n grembo all'erbe, non all'acque
La mia dea via più bella e manco cruda
Di lei cui sol la selva e l'arco piacque;
Sì forte le dispiacque
Del mio languire e 'l collo e 'l cor m'avvinse.
Deh perché non mi estinse
Allor la gioia, o poscia
Che desto io fui, la disperata angoscia?
 

*
Dormiami; e nel dormir sospiri e pianti
Sì dolci mi parea
Spargere, anzi io spargea, e tanti e tanti,
Ch'al fin pur nei miei lacci io rivedea
La bella fera scorsa;
Né tigre od orsa più, ma ninfa o dea;
Se non ch'invida aurora
La mi cangiò nella più rapid'ora.
 

*
Ecco maggio seren; chi l'ha vestito
Di sì bel verde e giallo?
Ninfe e pastori, al ballo!
Al ballo ninfe e dii per ogni lito!
Ecco maggio fiorito:
Lice, al ballo, e tu Clori,
Grazie, al ballo, al ball', Aure, al ballo, Amori.
 

*
Ecco l'alba col dì: svegliati, bella
Che tutta ignuda sì soave dormi:
O deh cuopriti almen, non si trasformi
Meravigliando in qualche sasso anch'ella.
Amore è che sì dolce ti favella,
O santa madre, e vela del bel velo.
Ma come se' di gielo?
E come se' pur dura?
Ahi null'altro che inganno al mondo dura.
 

*
A quante sveglia violette e gigli
Zefiro, io pur m'affiso;
E chi par che l'avorio m'assimigli,
Chi l'oro del bel viso;
Né, perch'io sia diviso
Da gli amorosi raggi del bel guardo,
D'una men fiamma io ardo.
 

*
D'un bel lucido rio
Candida ninfa semplicetta e schiva
Quasi un bel sole uscìo;
E postasi a sedere in su la riva
Diede il fin oro alla dolce aura estiva.
O sempre accesi lumi,
O stelle, o luna, o sol che 'l mondo allumi;
Or quanto e quanto di voi tutti er'ella
Sola costei più bella!
 

*
L'Arno, il bell'Arno già, ma nudo campo
Or d'arena cocente,
Ch'amarissimamente
Io di più dure ognor lagrime stampo,
Umile e 'nchino al solar carro ardente
Pur si rivolge e lagrimar vorria;
Ma dove son le stille? Acerba e ria
Sete gli ha il seno asciutto
E secco, anzi arso tutto.
 

*
Della mia Filli bionda
E' la nova in ciel chioma aurea lucente;
Io ben sì l'oro e l'onda
Riconosco e 'l bel crespo e 'l lume ardente:
Né più tremi la gente sbigottita,
Ma meco si conforte,
Ché non per guerra o morte,
Ma sol per darne aita
Quinci sparita, al ciel sua degna sede
Treccia bella d'Amor volando riede.
 

*
Torna il dì lungo, torna
A sì gran passi il breve;
E torna la stagion carica e greve
Di pomi, e l'altra di fior mille adorna;
Riedene chi n'aggiorna e chi n'assera:
Sol la mia stella altera,
Il mio sol che languir sempre mi vede,
Da' bei colli del cielo ancor non riede.
 

*
L'onda lascia e gli scogli
Delle sempre atre nebulose rive,
E qui meco t'accogli,
O Filli, in questi poggi e 'n queste olive,
Dove l'alma si vive
Sì riposata e lieta,
Che tal non si consola e non s'acqueta
Afflitto pellegrino
Là ver la sera al fin di suo cammino.
 

*
So ben di tua volante aura fugace
E di tue mille e mille
Scogli e sirene e scille, onda rapace,
Onda orgogliosa, ond'aspra, onda fallace,
C'hor sì tranquilla ridi,
E così pur n'affidi
E chiami al falso tuo liquido vetro;
Ma sordo anch'io non muovo, anzi m'arretro.
 

*
Quante e che spaventose
Ombre e larve atre, e scuri
Mi spaventan fantasmi: e tristi auguri
E voci dolorose?
Per ch'io già mai non pose,
Ma sempre fugga via di tema in tema
Insino all'ora estrema,
Cui, benché sì vicin, sì lunge io sono:
Sentirò mai nel cuor quel dolce suono?
 

*
Sparito il sol, che tutte notti ad una
Ad una allumar sòle;
O giorno senza sole,
O sera senza stelle e senza luna:
Né più (miseri) or l'una,
Or l'altro, ma sol notte
Pur sempre, e stigia notte?
 

*
Sparito il sol de le mie luci: o sera
Scurissima infelice,
Che svelta da radice
Tutta la mia purpurea primavera,
Di sì fosc'ombra nera
Non pur l'anima imbruni,
Ma tanti in sen m'aduni, in sen mi chiudi
Abissi, e inferni dispietati e crudi.
 

*
Torna, Zefiro, torna, aura tranquilla,
Da' bei rami di palme
E d'olivo, ond'ognor sì largo stilla
Il mattin perle preziose et alme:
Torna dal ciel, che per bel vetro spalme
Tutta gioiosa e carca
D'ambrosie e manne l'amorosa barca:
Ch'ora non par che porte
Se non salme di duol, merci di morte.
 

*
Riposata lunghissima, che mai
Non ti risvegli, nostra ultima sera,
Deh vienne, odine omai:
Ch'una sol volta io pèra,
Non mille e mille, come a questa fera
Piace, che 'l mondo chiama
Vita, che sì 'l mondo ama; oh mondo cieco,
Stanco io son né d'errar bramo più teco.
 

*
Torna, maggio purpureo, e quante luci,
Quanti fior, quante erbette
E quante aurette ha costassù, n'adduci:
A te solo il ciel dette
Di poter qui ritrarre il paradiso;
A te solo e al bel viso
Ove, se mai per sole o ghiaccio perdi,
Tu sempre ti rinfiori e ti rinverdi.
 

*
Ria lagrimosa tromba
Di spavento s'ha posto a bocca Morte;
E sì grave e sì forte
Suona dall'oscurissima sua tomba,
Che 'nsino al ciel rimbomba: udite belva
Spietata, voi che per quest'atra selva
Pur traviate lassi;
E volgete lassù, volgete i passi.
 

*
Ombra io seguo di sempre fuggitivo
Dolce ch'io non gustai
Né scorsi mai per questo ombroso rivo
Di lagrime e di guai,
Che non vengon se non per morte manco;
E son già stanco e vinto; né per questo
M'arrendo, né m'arresto.
 

*
Altre più dolci riposate olive
Il mio stanco pensiero
Mostrami, ed altre rive
Più fresche ed ombre al fin del mio sentiero;
Ond'io seco al ciel pur levomi, e spero
Di ritrovarmi in braccio
Al mio santo Riposo; ivi né ghiaccio
Né sol mai l'erbe ancide;
Ma il bel verde novello eterno ride.
 

*
Faticoso viaggio
Fornito hai, lassa e cieca peregrina,
Ch'a sì gran pena io traggio;
Posa; già ver l'occaso il cielo inchina
E s'avvicina la scurissim'ombra
Dell'atra notte; sgombra
E pon giù tutti 'n terra
Incarchi e salme di sensibil terra.
 

*
Fermate, ore, fermate;
A che tal batter d'ali? Io veggio il lido;
O porto, o porto fido
Di Posa! E sparse intorno alme beate,
Ch'or sì dolce cantate,
E rendete a colui di mia salvezza
Grazie, ch'altro non prezza
Che trarne al cielo; e basta a tanto volo,
E basta a tanta grazia un sospir solo.
 

*
Angeletta gentil cinta di mirto
Stese l'arabe piume, e quasi un vivo
Sol dal chiaro balcone in terra scese;
Fiammeggiava il crin vago, ondoso ed irto,
Ardean le guance, folgorava il divo
Alto splendor delle sue luci accese:
Allor sùbito io corsi, e 'n paradiso
Immantenente mi rividi assiso.
 

*
Tutte ignude e sì candide e vermiglie,
Amorosette e snelle,
Aure di Vener figlie,
Aure d'Amor sorelle,
Tornate a rivestir di sue novelle
E sue più ricche spoglie il prato e 'l bosco:
Tornate, e 'nsieme vosco
Deh torni e scherzi e rida, come suole,
Il bel verde, il bel vetro e 'l mio bel sole.
 

*
Dive, su de' begli orti almi di rose,
Oltr'a le serenissime contrade
Di luce, ove non cade
Il sol, ne mai pur s'ombra, aure pietose,
Deh girivi pietade
A queste valli ombrose,
E vi accompagnin quante
V'ha stelle e grazie e muse e ninfe sante.
 

*
Dal ciel cadeo gentil candida rosa
Di grembo scorsa alla rosata Aurora;
E quasi un fuggitivo raggio vago,
D'Arno appigliossi in chiara riva ombrosa:
D'Arno che sì bel fior non vide ancora.
Lasso, io che sol d'odor l'anima appago,
La man sùbito stesi: ella spario,
Mille spine lasciando nel cor mio.
 

*
In bel sereno stella
Non sì soave a mezza notte splende,
Com'io vidi là 'n quella
Riva un bel fior, d'intorno a cui s'accende
La fresca erba novella, e scherza e ride
Con l'aure e l'onde a prova:
E quanta il ciel par che dolcezza piova!
Amor, ch'ivi s'asside,
Giura che mai non vide in seno ancora
Un fior sì vago alla vermiglia Aurora.
 

*
Or lieve ape foss'io,
Se non trepid'auretta fuggitiva:
Che via di riva in riva
Io pur dietro valando al mio desio,
Nell'odorato mio candido fiore
Al fin mi chiuderei,
Mille e mille fra mille sospir miei
E mille entro e di fuore
Santi baci d'amore
Dandoli: oh qual soave il suggerei!
Ivi ben sì che volentier morrei.
 

*
Torna, Zefiro allegro, e 'l cespo inerba
E 'l ramuscello infronda:
Che la mia ninfa acerba
Dolce si giri a quest'ombrosa sponda,
In quest'onda si bagne, e qui sue trecce,
Qui suo vel fino spanda,
Qui di suoi fior ghirlanda all'Arno trecce.
 

*
Posa, amica gentil, che 'l mondo ignaro
E folle chiama morte,
Apri di tuo sì caro
E desiato albergo, apri le porte:
Né più tema o speranza mi trasporte,
Ma per quest'occhi lassi,
Che più vegghiar non pònno,
Deh nel mio cor tuo sonno eterno passi.
 

*
In suo ruscello amato,
Che pian pian se ne va tra' fiori e l'erbe
(Quasi un bell'aspe orato)
S'affisa spesso la mia ninfa acerba:
Indi or lieta e superba
Al ciel gli occhi suoi gira,
Ed or, nuovo Narciso,
Pur si rivolge alla chiar'onda, e mira:
Né, per mirar ben fiso,
Del sol vantaggio vede al suo bel viso.
 

*
Ha bevuto soverchio
Il prato e 'l solco: chiudete il fonte,
Aure del bel seren lucido cerchio,
E sì pur lievi e pronte.
Tu, fuor del monte, o Febo, anzi dell'onda,
Che tal già ne circonda, alza la fronte,
Tutte schiere cacciando
Di nebbie e nubi lungamente in bando.
 

*
Candide nubi il sol tutte di rose
Sparse nel suo sparire:
Così già mi dipinse il mio desire
Bianche guance amorose:
Poi né del sol men ratto si nascose
Entro nel core, ond'io
Le mie lagrime accolsi, e più non dissi:
Solo ben piansi e scrissi
(Né sì forte, aspro e rio)
In questa scorza e 'n quella il dolor mio.
 

*
Deh come pur lagnarvi
Ben sapete augellin di ramo in ramo!
Fermasi ad ascoltarvi
Il mio sord'aspe e crudo, ch'io tant'amo:
Io lo pur prego e chiamo,
Ei sen pur fugge, ohimè: deh per pietate
Or voi ditegli un die,
Ditegli, augellin, voi le pene mie
E per me vi lagnate,
O sì dolce lagnar voi m'insegnate.
 

*
Sempre verdi arboscelli,
Ov'al più caldo giorno
Filli mia si ricovra ad ora ad ora;
Lucidi rivi e snelli,
Ove 'l bel viso adorno
Si specchia e di se stesso s'innamora;
Vaga fresca e dolce ôra,
Che' bei crin nuovi, e 'nsieme
Scherzi e t'annodi e 'ncrespi;
Fiorite erbette e cespi,
Ch'ora il bel fianco, ora il bel petto preme:
Deh chi di lei, di voi,
Di me m'ha privo? E come viv'io poi?
 

*
O benedetto mio gentil pensiero,
Che mai non mi abbandoni,
E ch'or pur sì leggiero
Oltr'a quell'alpi, or sovra 'l ciel mi poni:
Tu di lei, tu con lei sempre ragioni,
Che di piacer mi sface;
E tu réchimi pace
A null'altra simile,
O benedetto mio pensier gentile.
 

*
Presso un limpido rio, ch'ambe le sponde
Ha di smeraldi, e di chiare ambre il seno,
Stanca s'asise errante pastorella;
Poscia con bianca man, di gelide onde
Gli occhi suoi sparsi e 'l viso almo sereno,
All'aura sciolse bionda treccia bella:
Me legò d'un sì stretto e saldo nodo,
Ch'io pur mi scuoto e ancor non me ne snodo.
 

*
Stranio verme di tema e di sospetto
(Qual sì mortal veleno?)
In sen m'è nato, e 'l seno
A poco a poco e 'l petto
E 'l cor mi rode, ohimè: quivi ei s'è stretto
E, come tarlo in asse,
Fisso nell'alma stasse,
Ch'a verga a verga trema,
E si sgomenta come all'ora estrema.
 

*
Troppo t'affidi, sola e pargoletta,
Per quell'onda fallace,
Ch'or sì queta si giace e pur t'alletta:
Dardo ivi né saetta
Non giova, e spesso ancor remo né vela:
Quanti scogli e quant'orche e mostri cela
Il bel tranquillo infido!
Gìrati accorta omai, gìrati al lido.
 

*
L'onda lascia e gli scogli
Delle sempre atre e nebulose rive,
E qui meco t'accogli,
O Filli, in questi poggi e 'n queste olive,
Dove l'alma si vive
Sì riposata e lieta:
Che tal non si consola e non s'acqueta
Afflitto pellegrino
Là vêr la sera al fin di suo cammino.

*****

Torna all'indice LUIGI TRANSILLO (1510-1568)

*
Occhi leggiadri e belli,
Occhi, non occhi. E che? Non so che dire.
Ancor che da la terra io prenda ardire
Poggiare al ciel, che fo? S'i' dico: stelle,
Mento, ché non fûr mai, né fian, sì belle.
S'io l'agguagliassi al sol, nulla direi,
Perché l'ho pur vist'io con gli occhi miei,
Vinto da voi nel bel sereno cielo,
Porsi di nubi, innanzi agli occhi, un velo.
Che dunque dir potrei?
Incolpat'a voi stessi il fallir mio,
Se non ritrovo il come:
Ché la troppo beltà vi toglie il nome.
 

*
Mentre nubi di sdegno
Fra i vostri occhi e 'l mio core
Fûr interposte, egli soffrì l'ardore:
Or che chiaro si gira
Il sol di quei bei lumi,
Forz'è che si consumi
L'anima, esposta a sì gran foco ignuda.
Poiché dunque può l'ira
Temprar sì ardente face,
Più che pietà non face,
Siatemi, prego, per pietà più cruda.
 

*
Sol nacqui a tormentarmi
In questa valle d'ogni pena e doglia!
Ma chi di vita e libertà mi spoglia,
Non vòl ch'io mi lamenti.
Fallo sol perché il duolo sia maggiore,
Non sfogando l'ardore.
O vita piena di martìri e guai!
Io non cesserò mai
Di dir ch'è lieto sol chi more in fasce,
Ovver chi mai non nasce.

*****

Torna all'indice GIOVAN GIORGIO TRISSINO (1478-1550)

*
Come di voi più bella
Non è, non fu, né fia
Donna mortal giamai,
Così la fiamma mia
E' senza paro anch'ella;
Ma più seriano assai
Queste due cose estreme
Se fosser note, e ben d'accordo insieme.
 

*
Sol, che circondi ogni abitato loco,
Vedestu al mondo mai sì bella donna?
Sì bella donna no; ma questo è poco.
Vedestu mai coprir terrestre gonna
Con tanta leggiadria, tanti costumi,
Tanta onestà, come in costei s'indonna?
Non: ch'al dolce apparir dei santi lumi
S'acqueta il vento e 'l murmurar dei fiumi.

*****

Torna all'indice DOMENICO VENIERO (1517-1582)

*
Per troppo ardente sete
Di rivedere il vostro amato aspetto,
Rimaser gli occhi miei del pianto asciutti,
Onde molli eran tutti,
Mentre bevean mirando il caro obbietto
Un mar d'alto diletto:
Tal che 'l soverchio affetto,
Per non caper nel core,
Com'era entrato, uscì per gli occhi fore.
Così fuor d'ogni usanza
Veder vostra sembianza
Di pianto il sen mi bagna,
E non vederla il pianto asciuga e stagna.

 

[da: Uroboro 5, Campi Bisenzio, Edizioni Mediateca, 1995.]


 
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