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Arrigo Boito

Re Orso
(fiaba)

Biblioteca Classica Uroboro

a cura di Paolo Pettinari
Edizioni Mediateca - 2002

Fonti

Arrigo Boito, Opere, a cura di M.Lavagetto, Milano, Garzanti, 1979.
 

L'autore

Arrigo Boito (Padova 1842 - Milano 1918) fu compositore, librettista e poeta. Autore dell'opera lirica Mefistofele e di vari libretti verdiani. Biografia: P.Nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano, Mondadori, 1942.
 

Il testo

A dispetto della specificazione contenuta nel titolo ("fiaba"), questo poemetto tardo-romantico e ormai decadente non ha assolutamente nulla, eccetto forse alcuni personaggi e alcuni tratti scenografici, del racconto fiabesco. Non c'è traccia di percorso iniziatico, non c'è caduta e risalita, non c'è passaggio al mondo della vita adulta. Ma tutto è retto da una compiaciuta pulsione di morte che emana dal protagonista, travolge tutto e tutti e alla fine condanna lo stesso Re Orso alla dissoluzione del corpo. Fra gli elementi simbolici della fiaba è presente soltanto quello della "discesa agli inferi", in un continuo demoniaco orgasmo di ebbrezza e follia, dove non si intravede alcuno spiraglio di salvezza.
    In questa febbrile corsa verso l'abisso un ruolo importantissimo è svolto dalla versificazione, dalla tessitura musicale del testo che accompagna la narrazione degli eventi. La sperimentazione metrica è in realtà l'elemento portante del poemetto: grazie alla musica delle parole, al ritmo delle frasi, all'uso variato delle iterazioni, le atmosfere si fanno via via turbinose o ipnotiche o talvolta si calmano per poi tornare fosche, allucinate, vorticose. La vicenda narrata diviene secondaria rispetto alle ragioni musicali, e in questo modo il modello letterario perde la sua forza di costrizione, fa da supporto scenografico visivo ad una vicenda che è invece essenzialmente sonora.
    Parallelamente, tale crisi del modello è anche uno dei tratti distintivi della poetica della scapigliatura milanese, di cui Boito fu esponente in gioventù (la prima edizione di Re Orso è del 1865). Contro la regolarità, il decoro, la misura, le convenzioni, il classicismo, contro i modelli accettati, gli scapigliati propongono il diverso, il malato, l'onirico, l'abnorme, il mostruoso... I risultati sul piano letterario sono tutt'altro che esaltanti, ma sul piano storico-culturale rappresentano un rifiuto esplicito di paradigmi che erano ormai diventati dei luoghi comuni della nostra cultura. In tale contesto è ovvio che non vi sia più spazio per la rappresentazione di viaggi iniziatici così come vengono riprodotti nelle fiabe. La loro occorrenza sarà d'ora in poi più problematica: sarà nascosta, sarà interrotta, sarà senza rinascita, in un universo di vicende sempre meno riconducibili a forme elementari, familiari e conoscibili. [P.P.]
 

Indice

Esordio

Leggenda prima: Orso vivo
1. Storie antiche
2. Spectrum
3. Ligula
4. Papiol
5. Ago e arpa
6. Trol
7. Nozze canzoni

Intermezzo storico

Leggenda seconda: Orso morto
1. Un secolo dopo
2. Confessione
3. Litania
4. Sudario, bara e lapide
5. Viaggio d'un verme
6. Lapide, bara e sudario

Morale

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ESORDIO

Pulzelle e pinzochere - fantesche e comari
Che andate per vespero - biasciando rosari,
Se avete dell'anima - cristiano pensiero,
Se il prete vi predica - l'eterno Avversiero,
Temete di leggere - la pagina orrenda
Di questa leggenda.

Fanciulli, omicciattoli - vecchiardi ed impubi
Se sotto le coltrici - v'affogan gl'incubi,
Se a notte col moccolo - guizzante allo scuro,
Vedete dipingersi - di scheletri il muro,
Temete di leggere - la pagina orrenda
Di questa leggenda.

Voi nonne, voi balie - che in lunghe parole,
Narrate pei bamboli - le magiche fole,
Se in sogno v'assalgono - sudate visioni
Di lamie e mandragore - di spettri e demoni,
Temete di leggere - la pagina orrenda
Di questa leggenda.

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LEGGENDA PRIMA: ORSO VIVO


1. STORIE ANTICHE

Prima che al mondo si dicesse 1000,
Viveva in Creta un Re. La maledetta
Per l'amor di Pasife isola infame,
Terra di mostri e di delitti, aveva
Re pari ad essa, ed era il Re nel nome
Feroce a dirsi, al suo cuor pari: Orso.
Cento cittadi gli rendean tributo
D'oro, di gloria e di paura; il mare
Di perle e di tempeste; il montuoso
Suol del suo regno di smeraldi, e murra
E d'a quei diamanti e di tremuoti.
Sul real scudo si leggeva in cifre
Scritte col sangue, ch'ei chiamava il vino
Delle battaglie, questo truce motto:
"Terroris terror", ed un orso d'oro
In campo ner lo stemma era del Duca.
Un serraglio di belve ed un di donne
Nudrìa nella sua reggia, ed ei nell'uno
Passava i giorni, nell'altro le notti.
Alle iene venia col crin spruzzato
D'olio di nardo e co' lascivi odori
Del suo letto d'avorio, ed alle donne
Redìa col leppo delle sozze iene,
E lordo il volto pe' sanguigni baci
Delle leonesse. Un avoltor di Libia
Chiercuto e fier, solea spesso sul palmo
Posarsi del monarca; egli era destro
A rapina d'agnelle e di palombe
Per bieca natura, e dagli schiavi
Educato a furar ori ed argenti
Per sollazzo del Duca. A sir Drogonte
Conte di Puglia egli ebbe un dì spiccato
Col rostro adunco la più bella gemma
Di sua corona, onde ne fu conflitto
Fra i due Signori. Ma più pauroso
Alla vista e maligno era un serpente
Immane e gonfio e negro e simigliante
Nel viscoso strisciar alla gomena
Incatramata; sull'aguto grifo
Portava un segno qual di teschio umano.
Alla voce del Duca egli tendeva
Erte le anella ed ubbidiva come
Debil fanciullo. Misteri di sangue
E di violenza infami eran fra 'l Duca
Ed il serpente; guardiano al varco
Del gineceo vegliava il mostro attorto
Co' groppi orrendi, né schiava mai
Tentò passo di fuga in quelle stanze.

Dodici Conti aveva il Duca eletti
A suoi ministri, e legge era di Stato
Che in sua presenza ei ripetesser muti
Ciò ch'ei compiva. Un dì bevendo a cena,
Ebro il Duca, ebri i Conti (avea ciascuno
La sua donna da lato) il Duca afferra
Mosso da noia o da delirio, il crine
Di Mirra sua, soave amor, fanciulla
Giovanissima e bella, e col pugnale
Ne schianta la testa; allor d'un colpo
Dodici teste rotolâr sul desco.
Pur nel dimane sentì cruccio il Duca
Del tetro caso e la sua bruna Mirra
Pensò e l'azzurra delle sue pupille
Onda serena, e l'oriental scienza
Delle sue carni or non più calde; e scrisse
Per Vitale Candian Doge a Venezia
E suo congiunto, un famigliar preghiero
Ove chiedea la più formosa donna
Delle lagune e la più casta. Il Doge
Trovò la Dea da un usurier sul lido
Della Giudecca, che vendea per oro
Le figlie sue; poi su galèa dogale
La mandò regalmente a quel di Creta.


2. SPECTRUM

Ogni notte - allo stagno - dell'orto,
Cupe e rotte - qual lagno - di morto
S'odon queste parole cantar:

Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi.

Se ognun dorme - s'è luna - serena,
Bieche forme - di bruna - sirena
Sovra l'acque si vedon vagar.

Ed ora è notte. Vigila
Il Re sul regio letto,
D'oro, di bisso e porpora
E' il fluido guancial;
Pur spaventato e livido
Ha il Re del cataletto
La posa funeral.

Né mostro né fantasima
Va per la regia stanza;
Scorre una luce glauca
Come fondo di mar;
E i fumi dell'olibano
In odorosa danza
Si vedono vagar.

Ma le ghiacciate coltrici
Rigetta il Re tremante,
Ei balza, ei corre ed ulula
All'aperto balcon...
Traggono i servi, ed odesi
Allor fra i venti errante
Questo funereo suon:

Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi.

Tutti tremar! Ma un nano
Gobbo, rossiccio e strano,
Parve surger dal suol.
Era il buffon di corte
Dalle gambette storte,
Il giullare Papiòl.
Questi rizzato in piè
Fe' uno sgambietto al Re

E disse: "Principe!
Paura ammanta
Di buio il fulgido
Raggio del sol.
Muta il delirio
Un'oca in drago,
In drago un'oca;
Questa è la foca
Laggiù del lago
Che a notte canta".

Un grido sol
Scoppiò per l'aere:
Viva Papiol!

Allora il Re, composto in un sorriso
Il terror del suo viso,
Si volse e disse ad un lurco gigante
Che gli stava davante:
"Farai diman per quel gobbo rossiccio
Un immenso pasticcio.
Il miglior succo d'ogni ghiottornìa
Voglio ch'entro vi sia.
Papiol in premio del sottil pensiero
Dee mangiarselo intiero".
Risero i servi e tombolò Papiolo
Dieci volte sul suolo.
Poscia soggiunse il Re: "Trol, quella foca
Ha voce troppo roca,
La scanna tosto; va'". Buon Duca e Donno
Che niun ti turbi il sonno.


Parenthesis

(Pulzelle e pinzochere - fantesche e comari
Che andate per vespero - biasciando rosari,
Se avete dell'anima - cristiano pensiero,
Se il prete vi predica - l'eterno Avversiero,
Temete di leggere - la pagina orrenda
Di questa leggenda.)


3. LIGULA

E' scorsa un'ora; sulla terra bruna
Vaga la luna - lenta, incerta, bieca,
Come una cieca; - più non batton l'orme
Dell'uom che dorme; - tutto è sonno, pace.
Il mondo tace; - sui caldi orizzonti
S'ergono i monti - come gruppi vari
Di dromedari.


Scena

"Oliba! Sirena dell'adrie lagune;
Oliba! Vezzosa conchiglia di mar;
Concedi ch'io vegga se bionde o se brune
Sian quelle tue chiome ch'io voglio mirar.
L'oscuro zendado ti togli da testa,
Ch'io sappia, fanciulla, se lieta o se mesta
Sia quella tua fronte ch'io voglio baciar.
Disfama le ardenti pupille digiune,
Oliba! Sirena dell'adrie lagune;
Oliba! Vezzosa conchiglia di mar".
(Ma Oliba non move né voce né passo,
Par fatta di sasso;
E il Re maledetto
S'attorce sul letto.)

"Oliba! Per l'aure del suolo natale,
Oliba! Pei canti del tuo gondolier,
T'appressa alla coltre del letto regale,
Mia vergine muta dai bianchi pensier.
L'amore dell'uomo, fanciulla, è più bello
Che quel del lione, che quel del torello
Che quel dell'ardente puledro leggier.
T'accosta e ti posa sul blando guanciale,
Oliba! Per l'aure del suolo natale,
Oliba! Pei canti del tuo gondolier".
(Ma Oliba non move né voce né passo,
Par fatta di sasso;
E il Re maledetto
S'attorce sul letto.)

"Oliba! Per l'atra mannaia del boia!
Oliba! Pel sacro furore del Re!
Per l'acre geenna! Per l'Orco e la foia!
Per mille assassinii che pesan su me!
T'accosta o faniulla dal sen di cameo,
Dal crin di basalte, dall'occhio giudeo,
Non far ch'io demente ti schiacci col piè.
Che il fiero tuo petto m'innondi di gioia!
Oliba! Per l'atra mannaia del boia!
Oliba! Pel sacro furore del Re!
(Ma Oliba non move né voce né passo,
Par fatta di sasso;
E il Re maledetto
S'attorce sul letto.)

"Olà Lìgula!" Repente
Urla il Duca, ed un serpente
Già dall'ombra ecco sbucò;
Sul terren le ondose anella
Negre, viscide, lucenti,
Già distese e si rizzò;
Già sui piè d'Oliba bella
Pone il grifo e già co' denti
L'ampio velo ne strappò...
Già la cinghia e già la serra,
Già l'annoda e già l'atterra,
Strascinandola sul suol!
Roteante - strisciante
Già depon la smorta amante
Sovra il tiepido lenzuol!
Oh spavento! In stretto morso
Su d'Oliba e su Re Orso
Si ringroppa il mostro ancor,
Già due corpi in un serrati,
Biecamente soffocati
Stridon rantoli d'orror!

E' scorsa un'ora; il rosseggiar dell'alba
Sovra la scialba - livida marina
Fa l'onda aurina; - tutto dorme ancora.
E' scorsa un'ora. - L'esule chiesetta
Dell'alta vetta - già si fa men bruna.
E ancor la luna
Splende sull'ermo,
Tonda ed immota,
Come una nota
Di canto fermo.
Pure un lamento
Viene col vento,
Ad ora ad or;
Par della foca
La voce fioca
Che piomba al cor:

Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi.

Pieno di schiavi e popolo
E' il regio penetrale.
Dorme una donna pallida
Sul morbido guanciale.
E il Re tinto di viola
Com'uom che inorridì
Geme questa parola:
"Trol, se la foca hai spenta
Qual spettro si lamenta
Prima che sorga il dì?"
Papiol rizzato in piè
Fe' uno sgambietto al Re,
E disse: "Principe!
Paura ammanta
Di nero il fulgido
Raggio del sol.
Finge il delirio
D'un'ora pazza
Fantasmi e morti.
Questa è la gazza
Laggiù degli orti
Che a notte canta".

D'un grido sol
Tuonò la reggia:
Viva Papiol!

Allor soggiunse il Re: "Trol, quella gazza
Ciarla troppo e schiamazza.
La scanna tosto, va'". "Buon Duca e Donno
Che niun ti turbi il sonno".


4. PAPIOL

Per le bimbe, per i pargoli
Dalla fiaba impauriti,
Per i nonni fra le tenebre
Desti, pallidi, romiti,
Cangierò la tetra nenia
In un verso allegro e matto,
Colla storia ed il ritratto
Del giullare Papiol.

Fu il buffon da una mandragora
Messo al mondo, e appena nato
Era al par d'un dito mignolo
Picciol, magro, affusolato;
Poi restò tanto rachitico
Fin ch'ei visse ed infermiccio,
Che una torta ed un pasticcio
Fur le case di Papiol.

Per cimiero ei porta un guscio
Di castagna o di lumaca,
Una pelle di lucertola
E' sua calza ed è sua braca,
Il borsel dell'elemosina
Porta al collo e il ribechino
Perché ognun getti il quattrino
Al gobbetto Papiol.

Tien la vespa il vile aculeo
Dentro il corpo alidorato,
Tal Papiolo entro la cintola
Tiene un ago avvelenato,
Con quell'ago ei fe' cadavere
Più d'un Duca e più d'un Conte,
Per quell'ago sir Drogonte
Venne spento da Papiol.

Perché un dì presente il Principe
Mangiò vivo uno scorpione,
Fu Papiolo eletto al titolo
D'uom di corte e di Barone.
Qui è finita. Ma pei bamboli
Cui diletta questa fola,
Dirò un'ultima parola
Sul barone Papiol.

Vive ancora un piccinacolo,
Storto, rosso, gobbo, nano,
Che gironza pe' viottoli
Di quest'ilare Milano;
Quel grottesco bambarattolo
(E il racconto è bell'e fatto)
Par la storia ed il ritratto
Del giullare Papiol.

E' scorsa un'ora; va volando intorno
L'angiol del giorno - a spegnere le stelle
E le fiammelle - che brillan sui fari
Dei marinari; - dal tepente ovile,
In lunghe file - corrono i lascivi
Cavrioli ai clivi.

Pure un lamento
Viene sul vento
Ad or, ad or.
Par della gazza
La nota pazza
Che piomba al cor:

Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi!

Un fier gigante e un lepido
Nano son presso al Duca;
Più ancor suadente e livido
Par che su lui traluca
Lo stigma del terror.
Ei sclama in suon terribile:
"Trol! Se la gazza hai spenta
Qual ombra si lamenta
Sì spaventosa ancor?"
Papiol sui storti piè
Fe' uno sgambietto al Re,

Poi disse: "Principe!
Paura ammanta
Di buio il fulgido
Raggio del sol.
Pinge fantasimi
L'anima inquieta,
Lo sguardo fosco;
Questo è un poeta
Laggiù nel bosco
Che a notte canta".

E il cuoco Trol
Mormora rauco:
"Bravo Papiol!"

Rispose il Re: "Papiolo quel poeta
Ha canzon poco lieta.
Coll'ago tuo lo pungi". "O Duca, o Donno
Che niun ti turbi il sonno".


5. AGO E ARPA

"Io di Provenza tenero troviero
Vorrei cantarti nella mia loquela,
Vorrei cantarti in nota di preghiero
L'ardente amor che il mio spirito inciela.
Per te sui voli dell'idea cavalco,
Cacciando le colombe del pensier;
Tu fai con me siccome fa col falco
Il falconier.
Tale m'alletta amoroso martòro
Che giorno e notte vo cantando e ploro.
"Tan m'abelhis l'amoros pensaman
Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan"".

E il nano Papiol
Nascosto fra l'ibride - lattughe del suol,
Coll'ago gli lancia
Rabbiosa puntura.
Ma il bel trovatore
Non sente dolore,
Non sente paura,
Ha maglia di Francia; - ha forte armadura,
Continua a cantar:

"Sta notte oravo e su di me lenìa
Quasi un soffiar di celestiale avena,
E mi si ruppe in cuor l'Ave Maria
Come prima fui giunto al gratia plena.
Tu m'apparisti angelicata Donna
Tutta piena di grazia e di virtù;
Certo salì la prece alla Madonna
Ed a Gesù.
Tale m'alletta amoroso martòro
Che giorno e notte vo cantando e ploro.
"Tan m'abelhis l'amoros pensaman
Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan"".

E il rosso buffon
S'incoccia nel pungere - l'armato gheron.
E tanto si slancia
Nel matto furore,
Che torce, che spunta
Dell'ago la punta;
Ma il bel trovatore
Ha maglia di Francia; - ha forte armadura,
Continua a cantar.

"Ten vieni o Donna nel gentil paese
Dove vibran le cetre e le mandòle,
Dove nasce la vaga serventese,
Dove si parla in rimate parole.
Ten vieni ed io ti guarderò mio nume
Dai mali, dalle lotte e dai viventi,
Qual si ripara colla palma un lume
In mezzo ai venti.
Tale m'alletta amoroso martòro
Che giorno e notte vo cantando e ploro.
"Tan m'abelhis l'amoros pensaman
Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan"".


6. TROL

Pei putti
Brutti;
E per le citte
Che non stan zitte
Intorno al fuoco,
Dirò la favola
Del cuoco
Trol.

Trol
Mariuol
E' un fier colosso
Negro, alto, grosso,
Ha una figura
Che fa paura;
Tocca il soffitto
Quando sta ritto,
Sulla ventraia
Tien la mannaia...
Bimbi copritevi
Sotto il lenzuol,
Che viene Trol.

Trol
Mariuol,
Ha doppie cuoia,
E' cuoco e boia;
Strozza i puttelli,
Cuoce i tortelli,
Dà vita e morte;
Ma le sue torte,
Pei santi Dei!
Non mangierei.
Bimbi copritevi
Sotto il lenzuol,
Che viene Trol.

"Trol mariol!" Grida il Duca, ed il gigante
Tutto chino e tremante
Riman senza far motto. "Il mio gobbetto"
(Segue il Re) "fe' difetto,
Ruppe l'ago e non punse il menestriero.
Ora sotto il maniero
L'ho sentito trovare una romanza
A non so quale amanza.
Papiol fallò tre volte. Io non perdono;
Quel gobbetto ti dono".


Parenthesis

(Fanciulli, omicciattoli - vecchiardi ed impubi,
Se sotto le coltrici - v'affogan gl'incubi,
Se a notte col moccolo - guizzante allo scuro,
Vedete dipingersi - di scheletri il muro,
Temete di leggere - la pagina orrenda
Di questa leggenda.)


7. NOZZE CANZONI

Sta notte l'upupa
Trovò sul sentiero
Che mena al maniero
La iena e la lupa;
E disse : "Mie care
Tornate da cena?"
Rispose la iena:
"Ci andiamo, comare".

La notte nereggia
Foltissima e cupa,
La iena e la lupa
Son sotto la reggia.

La reggia è un gaio incendio - par che vi nasca il sole,
Lumiere e faci irradiano - l'aere che fulge ed ole,
I frutti, i fior s'insertano - in vividi corimbi,
Le corazze son folgori - le corone son nimbi;
Il tepor delle fiaccole - fa tremolar le antiche
Muraglie e le panoplie - alle pareti amiche,
E spesso la fantastica - nube dell'incensiere
Filtra pe' cavi cranii - dell'ampie cervelliere.
Cetre, viole, flauti - mandan onde soavi,
La sala è zeppa, corrono - sparveratori e schiavi,
Siedono a mensa i dodici - ministri, Oliba, il Re;
Curvi famigli tergono - nel nitro i regi piè,
(Che niun potria le mani) - un collar di rubino
Ha il Duca che saetta - raggi di sangue e vino,
Tutto è tripudio; in alto - fra le eccelse volute
Danzan falene e nottole; - Papiol con scene astute
Move a riso quell'orride - faccie da sepoltura.

[Il Re]
Conti, se ieri - fu notte di paura
Pei vivi, io giuro a voi - miei messeri e consorti,
Che questa notte i vivi - faran paura ai morti;
Guai a voi se vien meno - la baldoria fastosa.

[I Conti]
Viva Orso! - Viva Oliba sua sposa!

[Il Re]
S'apra il banchetto.

(- Squilla repente un coro
Di trombe, e paggi biondi - portan calici d'oro,
Acque d'aromi ed amule - ed oli profumati,
Coppe murrine ed anfore - e pani inargentati.)

[Il Re]
Papiol! Su moviti! - Narra un piacevol motto,
Fa saltar lo scoiattolo - fa ballare il scimiotto,
Piangi, cuculia, imagina - qualche nuovo capriccio.


[Papiol]
Dirò le gobbole - quando verrà il pasticcio
Che m'hai promesso.

[Il Re]
- Papiol non esser fiero
Così, sai che il pasticcio - dêi mangiartelo intero.

[Papiol]
E mangiarollo - intiero per mia fé.

[Il Re]
Bada Papiolo - è più grande di te.

[Papiol]
Non monta.

(E intanto - ch'ei dicea le bravate,
Ruppe un bicchier; i Conti - squittir dalle risate.
Ma già tutti ammutirono. - Suona repente un coro
Di trombe; e quattro fanti - portano un paon d'oro
Sovra un piatto d'argento, - segue Trol, un coltello
Tiene in pugno; in due colpi - trincia il paone, in quello
Tuona di plausi il desco, - ballonzola Papiol.)

[Il Re]
Bel colpo!

[I Conti]
- Bel colpo! Bravo Trol!

(E intanto i paggi biondi - colman d'eletto vino
Le asciutte coppe e l'anfore. - Si rallegra il festino.
Il Re canta ad Oliba: - e sulle curve forme
Dell'aurea tazza ei specchiasi - più orribile e deforme.)

E' vin di verdèa
Mia bella Giudea.
E' vin che c'infonde
Le colpe nel core;
Ha gocciole, ha onde
Di rabbia e d'amore!
E' vin di verdèa
Mia bella Giudea!

(Ma la Giudea non beve. - Plaudon le turbe pazze,
Re Orso empie e tracanna - tre tazze e poi tre tazze.
Squillano ancor le trombe - per più eletto ristoro;
Appare un daino e un cervo - colle ramora d'oro.)

[Papiol]
Che il Minotauro - dal real capo storni
Que' preziosi ornamenti; - son d'oro, ma son corni.

(Il motto per que' tempi - era nuovo e innocente,
Rise la folla, rise - il Duca accortamente.
Ma Trol già squarta il cervo - tutto in un colpo sol!)

[Il Re]
Bel colpo!

[I Conti]
- Bel colpo! Bravo Trol!

(E intanto i paggi biondi - colman di nuovo vino
Le vuote coppe e l'anfore. - Si riscalda il festino.
Il Re canta ad Oliba: - e sulle curve forme
Dell'aurea tazza specchiasi - più orribile e deforme.)

Questo vino è vin di Cale,
Tien lontano il funerale!
Bella Oliba - chi lo liba
Questa notte non morrà.
Su lo liba - bella Oliba!
Questo vino è vin di Cale,
Tien lontano il funerale!

(Ma la Giudea non beve. - Plaudon le turbe pazze,
Re Orso empie e tracanna - tre tazze e poi tre tazze.
Squillano ancor le trombe - per più eletto ristoro;
Son lamprede che in bocca - chiudon monili d'oro.
Il Re fa cenno al boia - gli favella un istante
A bassa voce, ognuno - è livido e tremante.
E' scomparso Papiolo.)

[Il Re]
Dunque messeri,
Cessar le risa? Or tutti - vi siete fatti seri?
Ridi tu, bella sposa.

(E per la vaga ebrea
Stacca da una lampreda - un monil di ciamèa.
Allor la mesta Oliba - sovra argenteo bacile
Pone una mela, al Duca - presentandola umìle.)

[Il Re]
Grazie, fanciulla.

(E colla mano inerme
Spacca quel frutto... Orrore! - Orrore! Orrore! Un verme!
Un verme irsuto e gonfio - gli cadde sulla mano!
Ha sovra il capo un marchio - quasi di teschio umano.
Il Re fa cenno al boia - e allibito ed ansante
Gli favella all'orecchio; - ognun guata tremante.
E intanto i paggi biondi - colman di nuovo vino
Le vuote coppe e l'anfore. - S'infierisce il festino.
Il Re canta ad Oliba: - e sulle curve forme
Dell'aurea tazza specchiasi - più livido e deforme.)

Vin di Chio! Vin di Chio! Vin di Chio!
Questo è un vin che dà morte ed obblio!
Questo è un vin che fa simili a Dio!

Così dicendo in voce - terribilmente gaia
Piglia un coltel, sta dietro - Trol colla sua mannaia
Sopra Oliba; ma tutti - guatan la tetra ruca;
Oliba affisa l'occhio - sovra il coltel del Duca.

"O verme
Ti scherme
Dal morso
Dell'Orso!"

Il Re sghignazzando
Esclama e tremando.
Poi lordo di bava
Si volge alla schiava:
"Tu l'occhio tien fermo
Sul capo del vermo".

Niun parla, niun beve - silenzio è la festa,
L'Ebrea tutta muta - sta fissa a guatar,
Il bruco tramanda - viscose sozzure...
Già cade il coltello, - già cade la scure...
Del verme la testa - d'Oliba la testa
Si vede cascar,
E rotolar per terra - insanguinando il suol.

[Il Re]
Bel colpo!

[I Conti]
- Bel colpo! Bravo Trol!

(Ma dal giardin risuona - una mesta cadenza.
Tutti ascoltano; è il canto - del trovier di Provenza.)

O la luna, la luna era una mesta
Languida Dea!
Invan per essa ardéa
Brutto un dimon dall'ebre voglie impure,
Astaroth mostro che l'Inferno appesta.

O la luna, la luna era una mesta
Languida Dea!
Il dimon cui rodea
Bestial ferocia prese un dì la scure
Abbominata, e le tagliò la testa.

Ei cantava con voce - per vivo amore intensa.

[Il Re]
Trol, quella testa - ch'è là, sotto la mensa,
Gitta fuor dal verone; - a quel che si lamenta
Laggiù, sarà preziosa - giacché par che si senta
Molto in sue note: Oliba.

- Trol si chinò; l'afferra,
Schiude il balcon, la scaglia... - S'alza un urlo da terra!

(La luna biancheggia
Tristissima e cupa,
La iena e la lupa
Son sotto la reggia.)

"Josè, Ibraìm, Dom Sancio - Motaz, Fergùs, Gaudioco,
Kranào, Rachi, Xalenguy - Han-Kuan, Massùd, Urroco!
Conti e ministri al diavolo! - Voglio canzoni e grida!
Voglio bestemmie ed orgie! - Vo' che si cionchi e rida!"
Così schiamazza il Duca - né alcun osa parlare.

[Il Re]
Olà famigli! - Torni tosto il giullare.

(Ei disse appena, ed ecco - squillar le trombe in coro
E apparire un pasticcio - tutto rabeschi ed oro.
Dov'è Papiol, il matto - che dee mangiarlo intero?
Tutti cercan d'attorno - il gobbetto ciarliero.)

[Il Re]
Com'è suo modo - dee sbucar dalla crosta.

[Un Conte]
Strano odore! - La mi par troppo tosta.

(E intanto i paggi biondi - colman di nuovo vino
Le vuote coppe e l'anfore. - Si ravviva il festino.)

E' vin di Falerno. - E' vin dell'inferno.
Lo pigia Satàna - nell'èreba tana,
Com'onda, com'angue
Ci serpe nel sangue.
Nell'èreba tana - lo pigia Satàna.
E' vin di Falerno!

Pur vien da quella crosta - odor di bruciaticcio;
Che fa Papiol che tarda - ad escir dal pasticcio?
Il Re piglia un coltello - e con un colpo solo
Fa saltare il coperchio... - O Papiol! O Papiolo!
E' là morto arrostito! - Il ciuffo gli carbona!
Par faggiano o cutrettola - piuttosto che persona!
E' la gobba un comignolo - fumante! Sono gli occhi
Inceneriti! Ahi misero! - Fe' la fin de' ranocchi!
Risero i Conti, rise - Re Orso, e rise Trol.
La reggia è un gaio incendio - par che vi nasca il sol.

Sta mane l'upupa
Trovò sul sentiero
Che vien dal maniero
La iena e la lupa.
E disse: "Mie care
Tornate da cena?"
Rispose la iena:
"Torniamo comare".


Fine della leggenda prima

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INTERMEZZO STORICO

Quel tempo era il preludio
D'un'epopea divina;
L'antico sol dell'Asia
Parea levarsi ancor.
Come le vaste cupole
Dell'Era Bizantina
Parean costrutti i cranii
Degli uomini d'allor.

S'udian tuoni e tempeste
Di catapulte, e urtavansi
Scudi, mazze, cimier;
Per le forate teste
Irradiava nell'anime
La grand'alba del Ver.

La vecchia età de' secoli
Parea tornare bionda;
Crescea nell'uomo il giglio
Della serena fe';
Era santuario ed agape
La Tavola Rotonda,
Religiosa triade:
Iddio, la Dama, il Re.

O Titani! O Baroni!
O Guerrini! O Palamidi!
Magna stirpe d'Artù!
Larve, ombre, visioni,
Sogni, nebbie, miracoli,
Che non vedremo più!

Di quell'età fantastica
O poesia stupenda!
O canto, o Verbo, o rapsode
Genio fascinator!
Simile al Dio degli esseri,
Un Dio della leggenda
Creava forme e spiriti
Di tenebre e d'amor.

Genti balde e beate
Ponean mente alle favole
Dell'Orca e del Dimon,
E piene il cuor di fate,
Di sirene e di diavoli,
Facevano orazion.

Tale in un cerchio magico
Puro da immonda labe,
L'uomo crescea fortissimo
Colla vita nel cor.
L'opra del primo scettico
Fu rinnegar le fiabe;
Poi rinnegò il Demonio,
Poi rinnegò il Signor.

Sì! Coll'antica fola
Sorgea quel giusto popolo
Chiamato da Gesù;
La scienza e la parola,
La fortezza ed il genio,
La fede e la virtù.

Sorgeva il Sid purpureo
Come una calda aurora,
Simigliante ad aquila,
Nel furioso vol;
E l'inspirato monaco
Che sul collo dell'ora
Carcava i pesi plumbei
Del suo primo oriuol.

Tutto era gloria! Il lezzo
Forbìa dei negri secoli
La guerriera età;
E un fraticel d'Arezzo
Strillava in cima agli organi:
Ut, re, mi, fa, sol, la.

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LEGGENDA SECONDA: ORSO MORTO


1. UN SECOLO DOPO

Poscia che al mondo s'era detto 1000,
Sotto un rimoto ciel, di là dai mari,
Di là dai monti, lontano, lontano,
Moriva un Re. Tanto il labor del tempo
Frugato avea su quell'antico vivo,
Che le gene parean due raschiati
Palimsesti d'Oriente, ove le punte
Di calami nefandi avesser scritte
Molte storie d'inferno; la chioma
Bruna un giorno, poi bianca, era di zolfo
E d'ossido macchiata, al par di lino
Infracidito; di Re Orso ancora
Non restava che l'occhio.
Ei vi ricorda
D'un banchetto di nozze e di canzoni,
Tutto d'or, tutto sole? Era da quello
Un secolo trascorso e ancor viveva
Lo sposo di que' giorni, agonizzando
Ma viveva, ed avea centocinquanta
Anni sul dorso. A quel real banchetto
(Narra un'antica saga) ebbero i vini
Così gaie burrasche ed infuriate,
Che verso l'alba si vedean briache
Le capocchie cascar dei convitati
Distaccate dal torso, a quattro a quattro,
Come noci abbacchiate.
Un'altra saga
Più antica e più veggente ne tramanda
Che in quella notte mugolasser voci
Tetre nell'aria, e si vedesse appesa
La salma d'un gentil romanzatore
A un salice del bosco. E' la schietta
Leggenda vera fra le due scritture
Come or si vedrà.
La moribonda
Udiam voce del Duca; egli è disteso
Già come l'ombra d'un viandante a notte
Per bassi piani; già le molli piume
Diventâr cataletto; e già le coltri
Sudario, e i candelabri torcie. Un frate
Gli sta d'accanto, un frate negro e chiuso
In un lungo saio. Il labbro di Re Orso
Sgorga parole e rantoli; chinato
Il confessore ascolta. (E' la favella
Un torbido liquor che vuol l'orecchio
Per allambico.) A lunga confessione
Dei prepararti, o frate, a tenebroso
Rosario di delitti; in te l'Eterna
Misericordia sia d'aiuto e guida.


2. CONFESSIONE

Son tre giorni, son tre notti
Che Re Orso si confessa,
Né ancor muore, né ancor cessa.
Sia che aggiorni, sia che annotti,
Segue un frate in ginocchion,
Quell'eterna confession.


Scena

[Re Orso]
Santo frate beato, io farò dono alla Romana Apostolica Chiesa di 3000 talenti e di 40000 oncie d'oro, e di dugento botti di vino Mareòtico, se tu perdoni a questi miei peccati.

[Frate]
Ego te absolvo.

[Re Orso]
In quella stessa notte del banchetto nuziale, verso l'alba (udivo sempre quel misterioso grido) io dissi al cuoco Trol: se il menestrello s'è impeso di suo genio ei più non canta, perché il cappio gli strigne il gorgozzule, e saria cigolante; però t'assenno, e giuocherei la testa, che fra i dodici Conti imbriacati v'ha un ventriloquo certo, un di que' ch'hanno una bocca nei visceri e son detti "spiriti di Pitone".
Acuto vibra su lui sguardo e mannaia, lo indovina e lo uccidi... In quel ch'io dico... S'udì la voce... E il primo Conte cadde.

[Frate]
Requiem.

[Re Orso]
S'udì ancora la voce... Ed il secondo conte fu morto.

[Frate]
Requiem.

[Re Orso]
Caddero tutti.

[Frate]
Ego te absolvo.

[Re Orso]
Tuonò la sala come un coro d'idre... E tramortii. Più che crescea l'incubo di quella voce e più crescea di morti la reggia, e come s'aumentavan morti, aumentava l'incubo. In fin che un giorno farnetico d'orrore io riconobbi d'aver recise ad una, ad una, ad una, le teste delle mie molli consorti, poi d'aver crocefissi ad uno, ad uno, i miei buoni schiavi, e poi d'avere spente le belve del mio bel serraglio.
Trol in quel giorno s'asciugò più volte la fronte dal sudore, egli era stanco, e verso notte si coricò queto, sul suo giaciglio da ciclope. Orrore! Venne ancora la voce a spaventarmi... Ero solo... Diserto... Nella reggia non viveva che Trol... Trassi al giaciglio del placido dormiente, lo destai e gli dissi: "Demonio!"...

(Qui il frate veloce
Fa un segno di croce;
O santo Gesù!
Un segno a rovescio
Tagliato a sghimbescio
Col capo all'ingiù!!)

[Re Orso]
...E gli dissi: "Demonio! Or tu fingevi di dormire, vigliacco, ed ululavi per mio spavento... Il vivo, il solo vivo, l'ultimo vivo della morta reggia tu sei, tu sei lo "spirto di Pitone", tu canti! Tu gridi! Tu urli! Tu muggi! O maledetto! Io ti condanno, e dopo d'aver scannato ogn'uom, scanna te stesso".
Trol si scannò. Morì tranquillamente come un beato, colla pace sul volto, e sembrò veder da quel possente masso di carne volitare ad alto un'animella gaia e piccioletta che andava in Paraiso. O santo frate! Santo frate beato, io farò dono alla Romana Apostolica chiesa di sessanta monete Imperiali col conio d'Augusto, e di ben cento talami d'avorio che lasciai laggiù in Creta, se m'assolvi l'ucccisione di Trol.

[Frate]
Ego te absolvo.

[Re Orso]
Morto Trol restai solo... Solo... Solo come un'isola bieca, solo come un Dio decaduto, e non avea nemanco chi m'uccidesse! La voce tremenda continuava a mugghiare e rendea suono come un pianto di donne e una bestemmia di giganti e un ululato di belve; allor raccolsi le mille perle della mia corona e fuggii... Lontan, lontano, lontanissimo, e tutto ramingai il quadrato del mondo e ai quattro angoli m'assisi della terra, e vidi il nido della Fenice, e vidi la regione dei fieri antropofagi, e poi quella dei savi Siasenesi, più in là d'Egitto e d'Arabia e di Siria e di Giudea corsi, e sul lago d'Asfalte e sopra il monte Nibes viaggiai, ma sempre l'urlo mi seguìa della voce. Un secolo viaggiai. Trovai nell'India un giardino che aveva le siepi d'oro e i ruscelli d'ambrosia, era l'Eden, v'entrai, ma il mio tumulto sentivo ancora più, fuggii... Trovai nell'Africa la placida isoletta di Menne ove ha sorgente Lete. Io mi gettai tutto in quell'acqua che ranebbia il senso della memoria... Ahi! Vano! Come foca che all'onde si ravviva crescea la voce; ed or la sento ancora strepitar nel cerebro. Oh! Santo frate! Deliberami tu!

[Frate]
maut maidrociresìm mangàm mudnùces, sueD ièm ereresiM.

(In basse preghiere
Sta il frate raccolto,
O santo Gesù!
Il suo "miserere"
Le cifre ha sconvolto
Coi piedi all'insù!)

[Re Orso]
Frate, ho finito la confessione - sto per morire - m'insegna a dire... Un'orazione. Frate ti dono tutta la mia reggia di Creta e la corona mia... Tu vigila, tu spia... Il mio funerale... Voglio essere imbalsamato da un mago d'Oriente, voglio durar sotto terra bello e fresco come una sposa per dieci secoli... Voglio molti aromi nella bara... E odore di santità... E un sudario di porpora, e una cassa d'oro, e un monumento di cristallo... E il monogramma Px, e il lamento delle prefiche e il canto delle cantatrici... E voglio - poni mente - voglio una moneta d'oro nella mano destra per pagare San Pietro. Frate ho finito la confessione... Sto per morire... Dammi la santa benedizione.

(Il frate veloce
Fa un segno di croce;
O santo Gesù!
Un segno a rovescio
Tagliato a sghimbescio
Col capo all'ingiù!)

Già d'Orso è l'occhio
Nebbioso e torto.
Che fu? Fra un rantolo
Strozzato e corto
Par che nell'anima
Gli sia risorto
Come un peccato
Non confessato.
Che fu? Gorgogliano
Le labbra inferme:
"Ho ucciso un..."

Re Orso è morto.


3. LITANIA

Orcus tibi ducit pedes.
Urla in barbaro latino
Il bieco cappuccino.
Sotto il letto un rospo gracchia,
Come un prete in sacrestia,
E alla negra salmodia
Par che dica: "Amen".

[Frate] Pape Satan.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Pape Pluton.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Pape Ariman.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Pape Caron.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Dragon.
Chiron.
Grifon.
Gerion.
Typhon.
Mammon.
Demogorgon.
Yemon, Yemon, Yemon!

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Astharot. Asthoret.
Baal-Zebub. Beel-zebù.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Gigas Belial.
Nane Mistral.
Gigas Baal.
Nane Mistral.
Gigas Beral.
Nane Mistral.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Bombo!
Mormo!
Gorgo!

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Pharisee.
Philistee.
Sadducee.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Caìn.
Cam.
Juda.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Pape Anastasie.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Papa Silvester.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Papissa Ioanna.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Lilith succubus.
Haza incubus.
Lilith ephialtes.
Haza hyphialtes.
Mar.
Nightmare.
Cauchemar.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Manto Sibylla.
Vritra Sibylla.
Eriton Sibylla.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Simon mage.
Mistral gibbe.
Moloch orce.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Sancte Tiberi.
Sancte Nero.
Sancte Caligula.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Sodoma.
Gomorra.
Babilonia.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Nitrum.
Carbo.
Sulphur.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Poetuncule cattolicissime.
Pigmee.
Murmex.
Formicalèo.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Infirmitas nefanda.
Las bubas.
Französischen Pocken.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Gula.
Luxuria.
Ira.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Bar-Jesù.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Antichriste.

[Rospo] Ora pro eo.

[Frate] Legio diabolorum.

[Rospo] Orate pro eo.

[Frate] Orcus tibi ducit pedes.

[Rospo] Amen.

[Frate] Rafel mai amech zabi àlmi.

Finiti i salmi
Oscillò un moto
Di terremoto
Com'onda in mar,
E rospo e monaco
Come un insonnio
Si dileguâr.

Quando al mattino
Comparve il sol,
Si vide l'abito
D'un cappuccino
Disteso al suol.

Santo Gesù!
E come fu?

Niun si graffii
La cuticagna;
Rimase il guscio
Della castagna,
E Belzebù
Mangiò il marron,
C'era un dimon.


4. SUDARIO, BARA E LAPIDE

C'è un bel cavalier
Che viene da Creta,
La folla irrequieta
Già tragge a veder.

O il bel cavaliero
Dal volto fatale,
Dal magico vezzo!
Gorgiera e cimiero,
Corazza e coscile
Son tutti d'un pezzo.
La strana armadura
Incute paura.
Vedendolo correre
Legger come un vento,
Le donne ed i bamboli
Si danno a pensar:
"Nell'erta panoplia
Di bronzo e d'argento,
Per quale incantesimo
Poté penetrar?"
La strana armadura
Incombe paura.

"Sono il Re d'un grande Impero,
Fu Re Orso mio bisavolo,
Son venuto a cavalcion
Di Libeccio e d'Aquilon,
Per assistere all'esequie
i quel nobile guerriero".
Così parla il cavaliero;
Sta la folla in ginocchion.

Nel primo giorno della regia esequie
Orso (sia requie)
Fu da uno strolago
Del moro Alambra,
Unto di balsami,
D'aromi e d'ambra.
Poi nel sudario
Messo a dormir.
Era di poprora
Un amplio strato,
Dove tre vergini
Meste cucîr
Il bel cadavere
Imbalsamato
Del morto Sir.

Pur v'è sul sudario
Un picciolo buco
Di tarlo o di bruco.

Nel dì secondo della regia esequie,
Orso (sia requie)
Fu in un massiccio
Feretro d'oro
Calato giù.
Cantâr i monaci
Un santo coro
Al Re che fu.

Pur v'è su quel feretro
Un picciolo buco
Di tarlo o di bruco.

Nel terzo giorno della regia esequie,
Orso (sia requie)
Fu in un sarcofago
D'albo cristallo
Messo a posar.
Sul vetro un'iride
D'ocra e corallo
Venne a brillar.

Pur v'è sulla lapide
Un picciolo buco
Di tarlo o di bruco.

Il bel cavalier
Venuto da Creta
Con aria quieta
Sta ritto a veder.

"E' finito il funerale
Di Re Orso mio bisavolo,
Or io parto a cavalcion
Di Libeccio e d'Aquilon".
Così parla quel fatale;
E' la folla in ginocchion.

Così parla... Ma sta ritto,
Né fa passo, né fa sillaba,
Né fa gesto, né fa suon.
Forse ei pensa un'orazion.
Par sul suol piantato e fitto.
Sta la folla in ginocchion.

Par di sfinge o di cariatide
La metallica figura,
La panoplia unita e dura
Pare un tetro monumento...
Ahi! Paura! Orror! Spavento!
O miracolo! Miracolo!
E' vuota l'armadura.

Santo Gesù
E come fu?
Niun si graffii
La cuticagna,
Rimase il guscio
Della castagna,
E Belzebù
Mangiò il marron.

Sta la folla in ginocchion.


5. VIAGGIO D'UN VERME

Passâr tre giorni, sotto il monumento
Dorme Re Orso come un buon cristiano;
Non s'ode a notte voce né lamento,
Né verso strano.

Ei vi ricorda ancora, e' vi ricorda
D'un banchetto di nozze e di canzoni,
Tutto d'or tutto sole? Ei vi ricorda
Come in mezzo a quell'orgia scatenata
Orso uccidesse un verme? - Era da quello
Un secolo trascorso e ancor viveva
Quel verme ucciso: "Vermis non morietur".
Il verme non morrà; morrà il leone,
Morrà l'uom, morrà l'aquila, ma il verme
Vivrà in eterno. Dal reciso capo
Vegeterà più gonfio il circolare
Lombrico freddo; ei raffigura il tempo,
Si logora e rinasce. Il verme d'Orso
Si trascinò colla cionca testa
Fino al suo nido, e là visse cent'anni
Entro la terra; ma ne l'ora istessa
Ch'Orso fu morto, cominciò il suo viaggio.

Il refolo buffa - in rabida zuffa - col mare lontan,
E l'irta tempesta - inzacchera e pesta - lo squallido pian,
Sull'umile biche - le brune formiche - errando sen van;
E in trepida foga - più d'una s'affoga - nel giallo pantan.

E sera e mattina
Un verme cammina.

Sul muso ha tre branche - sul ventre ha sei zanche
Col viscido umor
Del corpo velluto - ei spande uno sputo
Di rabbia e livor.
Si gonfia e rappiglia - s'allunga e assottiglia
Con lento vigor,
Si snoda e s'annoda - dal capo alla coda
Di drento e di fuor.

Per monti e per spiaggia
Un verme viaggia.

Passâr tre anni. Sotto il monumento
Dorme Re Orso come un buon cristiano.
Non s'ode a notte voce né lamento,
Né verso strano.

E il verme viaggia. Tre anni e tre giorni
Stette a percorrer l'isola di Creta
Senza riposo; all'angolo postremo
Di quella terra è giunto, a quel ch'è detto:
Capo Sidèro. Sta davanti il mare;
Immensità. Pel figliuol del loto
Il mare è morte; pur convien ch'ei viaggi.

Ci son due canonaci - sul basso del lido.
Traversa un naviglio - e gridan: "Compar!
Compar! Se la barca
Non è troppo carca
Portateci in mar".
E l'uom del naviglio - risponde a quel grido:
"Montate pur su.
V'aiuti Gesù".
Poi chiede: "In qual isola - convien che s'approdi?"
"A Rodi" rispondono - e in rapido vol
La barca viaggia.
Appare una spiaggia
Schiarata dal sol.

"Siam giunti o canonaci - nel porto di Rodi.
Saltate pur giù.
V'aiuti Gesù".
Saltâr; ma quel chierico - dall'ampia epiderme
Frugò nella tunica - per dare al nocchier.
Terror! Dalla tasca
Un verme gli casca
Orribile e ner.
E' il diavolo! E' il diavolo - (ei gridan) quel verme!
E fuggon - Gesù
Aiutali tu.

E il verme viaggia. Avea ripreso lena
Nella scarsella di quel buon prelato,
Che sapea di salsiccia, e al tiepidore
Di que' beati fianchi un dolce sonno
Gli sopravvenne. Appisolò per tutto
Il traghetto di Rodi, e al salto brusco
Si risvegliò del prete. Or sulla duna
Sta esplorando il destin. Iddio protegge
I vermi della terra. Ecco, sul lido
In groppa al verde carolar de' fiotti
Approda un gatto morto; è la carogna
Un paradiso al verme. Il verme corre,
E l'ansia cupa delle floscie anella
Raddoppia, e l'onda del suo dorso, e sale
Sulla carogna. Un soffio di levante
Spinge il gatto nel mezzo alla marina
Come nave in fortuna, e il bruco rode
Su quella fogna ch'è merenda e barca.

Spira Volturno.
Pel ciel diurno
Di Patmo l'isola
Ecco che appar.

E sotto il buon vento
Un bel bastimento
Galleggia sul mar.
- A bordo chi c'è?
- A bordo c'è un re.

Spira Gerbino
(Soffio marino)
Di Samo l'isola
Ecco che appar.

E sotto il buon vento
Un bel bastimento
Galleggia sul mar.
- A bordo chi c'è?
- A bordo c'è un re.

Spira Scirocco,
Là da Marocco,
E il lido d'Asia
Ecco che appar.

E sotto il buon vento
Un bel bastimento
Si vede approdar.
- A bordo chi c'è?
- A bordo c'è un re.

Ma il bel palischermo
E' un micio affogato,
E il re ch'è sbarcato
E' un povero vermo.

Passâr trent'anni. Sotto il monumento
Dorme Re Orso come un buon cristiano.
Non s'ode a notte voce né lamento,
Né verso strano.

E il verme viaggia. - E passa Smirne, e passa
Nicomedia. Fatato è il suo cammino;
Ha lentezze da polipo e rattezze
Da rondinella. - Per tre giorni ei solca
Le pareti d'un ponte e va coll'aria
In grembo d'una foglia, attraversando
Monti, golfi, lagune in un baleno.
L'anno di grazia mille cento e venti,
Nel dì che Re Luigi avea segnata
La pace con Normanno, il viaggiante
Lombrico era a Parigi, e le calcagna
Stavan sovr'esso d'un'intera plebe
Congaudente. Ma l'Iddio protegge
Il verme della terra, e dal suo capo
Storna il tallon dell'uomo; il tetro bruco
Pensò fuggendo fra la folla viva:
"Questo è un mondo in putredine. Qui morta
E' la natura". E continuò il suo viaggio.


Parenthesis

(Voi nonne, voi balie - che in lunghe parole,
Narrate pe' bamboli - le magiche fole,
Se in sogno v'assalgono - sudate visioni
Di lamie e mandragore - di spettri e dimoni,
Temete di leggere - la pagina orrenda
Di questa leggenda.


6. LAPIDE, BARA E SUDARIO

A mezzanotte - lo scarafaggio
Incontra un vermine - sul suo sentier.
"Hai l'ossa rotte - fratel, coraggio!"
Grida beffandolo - l'insetto ner.
E il verme: "Ho corso - la terra e il mare,
Solcai la faccia - del mondo intier.
Cerco Re Orso".
"Se il vuoi trovare
E' là da un secolo - nel cimiter".
Risponde il vermine:
"Bel scarafaggio
Ti dia la luna
Buona fortuna".
"Tu arriva al termine
Del tuo viaggio".

E a giorno ed a vespero - e a sera e a mattina
Un verme cammina;
Coi lividi muscoli - si gonfia e rappiglia,
S'allunga e assottiglia.
Già verso un sarcofago - più e più si strascina,
Più e più s'avvicina.
Già tocca il sarcofago. - Ma sotto la lapide
V'è un picciolo buco,
E l'orrido bruco
Già in quel penetrò.
Passata è la lapide. - Sull'oro del feretro
V'è un picciolo buco,
E l'orrido bruco
Già in quel si cacciò.
Passato è già il feretro. - Sul lin del sudario
V'è un picciolo buco,
E l'orrido bruco
Già in quel si gittò.
Passato è il sudario. - V'è dentro un cadavere!
Già il verme lo tocca!
Gli sputa sul teschio!
Gli morde la bocca!
Già il morto terribile
L'avello spezzò.
Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi.
Lontan fra le tenebre
Un urlo gridò.

Son sette secoli - che a mezzanotte,
Appena scoccano - dodici botte
Sull'oriuol,
Passa un fantasima - che fa del mondo
Il viaggio tondo - opposto al sol.

Terror de' talami - e delle cune,
Quando risplendono - le bianche lune
In alto ciel,
Allora appaiono - per chi non dorme
Le morte forme - fuor dall'avel.

Gli rode un vermine - palato e lingua;
Pur sul suo scheletro - par non s'estingua
La carne ancor.
Quel suo cadavere - imbalsamato
Spande un beato - d'aromi odor.

Come da fetido - mortal miasma
Fugga dai balsami - di quel fantasma
Ogni cristian.
Se a notte un mistico - profumo è sorto
Certo quel morto - non è lontan,
E allor bagnatevi - coll'acqua santa,
E la reliquia - che i spettri incanta
Prendete in man.
Poi dite all'orrido - fantasma impuro
Questo scongiuro:

Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi.


Fine della leggenda seconda"

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MORALE

Né savio motto - né aforismo dotto,
Né sermo o perno - di morale eterno
Niuno cerchi da me.

Sol lo strambo - quaderno - un ambo - o un terno
Può dar di botto - per chi giuoca al lotto.

Dunque ascoltate - l'ambo e il terno c'è:
Un boia e un frate - un gobbo, un verme e un re.

 

[da: Uroboro 6, Campi Bisenzio, Edizioni Mediateca, 1995.]


 
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