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L'Area di Broca
Indice n.68-69
 

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"L'area di Broca", XXV-XXVI, 68-69, 1998-99

SCRITTURA

 

Maria Pagnini

La lupa
 

Due anni di riso e di pianto

Generalmente ci vogliono due anni di pianto per buttare fuori quella grande carica emotiva che poi ti permetterà di lavorare pulito.
All'inizio i nostri racconti sono su nostro padre che è morto e mentre si scrive si piange e quando si arriva a leggerlo agli altri, lo si fa con un nodo in gola.
Poi passa, si supera questo passaggio primordiale.
lo sono rimasta per due anni su mio padre. Ho pianto tanto. Poi sono passata ai miei. Poi ai miei posti. Poi a un campo. Ho scritto su di un campo. Un campo in conca. Me l'aveva insegnato mio nonno come si fa un orto. Era mio padre in seconda.
Verso il terzo anno sono arrivate le storie degli scrittori. È stato vedendomi con gli occhi di mia sorella che ho scritto un racconto su Pavese, visto da sua sorella. La sorella di lui. Questo filone è durato un anno. Poi è finito e non tornerà più.
Al quinto anno, quello in cui sarei io, si incomincia a pensare al romanzo.
Ma ci si può arrivare anche subito.
C'è anche chi è partito con un romanzo.
È scrivendo che si impara come si fa. Non cercare corsi o manuali su come si fa un racconto, un romanzo, un film.
Scrivi e basta. Gira e basta.
Non allontanarti dal calore, dal fuoco, non andare a cercare la freddezza della tecnica.
Se cerchi un manuale ti dice subito che devi fare una scaletta.
C'è il rischio che quando ritorni sul pezzo con la tua scaletta, trovi tutto spento.
Perché quando si scrive bisogna cogliere l'attimo fuggente.
Si chiama essere in vena.
 

L'attimo fuggente

Il mio sistema è quello di scrivere tutto quello che viene, in modo grezzo e casuale. Viene fuori un ammasso gelatinoso che non ha né testa né coda. L'avrà dopo.
Questa è la matrice. E sappi che la storia che riconoscerai come tua sarà solo quella della prima stesura. Sono le impronte lasciate dalla lupa sulla neve. Tutte le stesure che seguiranno non sono altro che il tentativo di trovare le parole per dirlo meglio.
Se penso ad un lungo racconto, come potrebbe essere questo, allora uso delle cartoline o delle buste.
Ogni capitolo ha la sua busta. Per me ogni paragrafo o sottoparagrafo è un capitolo perché questa non è una tesi.
Per intenderci, questo, l'attimo fuggente, è un capitolo.
Ogni busta è lì, a bocca aperta, ad aspettare i miei pensieri. Su quella di questo capitolo c'è scritto: il mio sistema.
I pensieri vengono fermati su dei biglietti volanti, in qualunque posto mi trovi.
È la tecnica della Scuola di Barbiana. La scuola è sempre meglio della merda. C'era scritto in uno dei loro biglietti.
Diventerà un capitolo. Di più, un punto fermo. Un caposaldo. Una lapide, a fianco, la bandiera.
 

Abbiamo due vite

Non sapendo quanto ci resterà da vivere, è meglio averne due. E questo, scoprirai, è il mio leit-motiv.
- lo so, dice Luisa
Dovrebbe ordinarlo il dottore, di scrivere. Quando si trova a fare una certa diagnosi, dovrebbe staccare una ricetta con scritto: scrivere!!! con due o tre esclamativi. Gli esclamativi sono a seconda della gravità. Deve diventare una imposizione. Devi farlo. Per salvarti. Non ho altra medicina.
Insomma, quando si scrive abbiamo due vite, perché si vive due volte. La prima è in diretta, la seconda in differita.
 

Ci si spoglia

Con la scrittura si vede quello che siamo.
Io ho i denti in fuori e una bella chiorba di capelli che non si fanno domare.
Di più: ci si spoglia.
Ho anche tre amori: i miei tre bambini, la scrittura e un amore con cui vorrei dormire tutte le notti per sentire il suo respiro.
Di più: ho una scrittura scarna, secca, essenziale. Mio padre parlava poco.
E quando parlava era di poche parole.
Lui non avrebbe detto:
- buon giorno Luisa, come stai? se cercavi Maria non c'è, è andata dal dottore per una ricetta.
Lui no, non così.
- Non c'è quell'altra. Buon giorno.
Ecco, così.
Perché la mia scrittura è la mia storia.
 

Scrivo perché non parlo

Sono arrivava a scrivere a quarant'anni perché mi son detta: comunichiamo qualcosa.
Prima non avevo mai parlato né scritto.
O meglio, parlavo pochissimo, come mio padre. Prendevo tutto da lui, quello che non mi arrivava con il codice genetico, lo copiavo.
A lui piacevano le corse in bicicletta, io andavo in bici.
A lui non piaceva il pesce, a me dava la nausea, come incinta.
A lui non piaceva parlare, a me nemmeno.
- non mi dici nulla del mio racconto, mi ha chiesto Luisa, mentre guidava.
- non so che dirti.
Dopo che è morto, ho continuato per altri trent'anni nel suo stile, nella sua memoria. È a quaranta che mi son detta: certo che è poco. Meglio mandare qualche altro messaggio.
E così mi son seduta al tavolo e ho incominciato a scrivere. E giù pianti.
Anche prima di scrivere piangevo, ma di gioia o di dolore. Per un bambino che nasceva o per qualcuno che moriva.
Ora invece, scrivendo, piangevo per me.
Mi scorrevano le lacrime sul viso e cascavano a tonfo sulla pagina.
Quando aprivo a qualcuno (all'inizio aprivo) avevo gli occhi rossi. Mi vergognavo un po'.
Eppure stavo dando il meglio di me, in quelle pagine.
Quando scrivi i primi racconti non arriva subito la lupa. All'inizio si tratta di imparare le nozioni fondamentali per andarla a cercare e reggere la corsa.
Per esempio, stare a cavallo.
Cavalcare a pelo, con le cosce ben aderenti alla groppa.
Reggere il trotto e il galoppo. La corsa.
Poi inforchi la pista.
E anche lì c'è da trottare e galoppare.
Poi arriva lei, la lupa. Prima manda avanti i lupacchiotti. Incominci a stare con loro, a prenderti le loro leccate e i loro morsini. Lei non arriva subito. Non è che ti siedi al tavolo, incominci a scrivere per la prima volta e arriva subito la lupa.
Farebbe solo paura.

 


 
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