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L'Area di Broca
Indice n.68-69
 

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"L'area di Broca", XXV-XXVI, 68-69, 1998-99

SCRITTURA

 

Stefano Lanuzza

Postfazione
Lo
scrittore del Manuale

I. In questo libro di labirinti narrativo-saggistico-pedagogici, refrattario a classificazioni di comodo, si racconta che non si insegna a scrivere ma si impara e come non si possa imparare a essere scrittori se non lo si è...
   Allora, se - invece d’intraprendere più redditizie attività d’idraulico, cerusico, leguleio, calciatore, mago, ballerino, oste - vuoi fare lo scrittore, fallo: ma sapendo che tale mestiere ha in Italia richieste di mercato appena superiori a quelle riscosse dai rettificatori di banane in Somalia e, inoltre, che l’arte di comporre parole non s‘apprende dai manuali. Né tampoco da "scuole di scrittura" istituite, spesso, da Carneadi senz’arte né parte risoltisi al
business o ad acquisire benemerenze vendendo fumo senza arrosto a dopolavoristi vogliosi di "realizzarsi", a velleitari apprendisti-poeti, a euforici studenti d’una difficile "terza età".
   Insomma, non c’è modo d’imparare a scrivere secondo un proprio stile se non scrivendo: e magari, come faceva Hemingway, revisionando e scri/vivendo ciascuna pagina perfino venti volte. Con la penna d’oca, la matita, la biro, la vecchia Olivetti o l’alieno computer: mezzi peraltro inutili se chi vuole scrivere non possiede, con un peculiare "mestiere di vivere" irriducibile a qualsivoglia normativa, il
gusto: della parola scritta in un certo modo, di uno speciale fraseggio espressivo, dell’infinitamente piccolo coniugato con l’infinitamente grande, del minimo e dell’immenso.
   Il tutto dominato da una consapevolezza, una diligenza e una precisione che escludono ogni idea astratta o sensazionale della letteratura; e perciò scartano le costruzioni tergiversanti, involute o prive di ritmo, le parole vuote e gli autobiografismi senza obiettività, i simbolismi forzati e le conferenzine pretenziose, i personaggi, le storie, i concetti e i toni astrusi che perpetuano l’eterna noia - la crisi - del romanzo: di successo o d’insuccesso, stagionale o d’annata, banale sempre.
   Contro simile stato di cose Silvano Zoi scrive, "senza speranza né disperazione" - direbbe Karen Blixen -, non certo ad uso di inverosimili allievi ma per sé, un (
il) Manuale dello scrittore: e mai titolo fu miglior chiave di lettura d’un testo. Questo è - forse - la vicenda, raffinatamente ellittica, dell’iniziazione alla scrittura di tale Giuseppe Anepeta. Ma niente ha della didascalica aridità manualistica la cadenza cantilenante, dalla metrica musicalissima, adottata da un autore che, all’insegna della sua consueta, amara ironia, descrive le peripezie presenti, passate e future d’una miriade di personaggi per ognuno dei quali il lettore viene invitato ad ammettere, davanti a uno specchio flaubertiano moltiplicatore di immagini, che ogni personaggio "c’est moi".
   È un
c’est moi applicato da Zoi innanzitutto a se stesso, non in nome d’una strumentale identificazione ma dell’immedesimazione nata da quella capacità di conoscersi che poi consente d’imparare a conoscere gli altri e lasciarli esprimere con libertà. Immedesimazione che include il "raccontare l’ambiente qual è" e il "lento cadere delle ore" di un giorno breve quanto la vita, il "prestare la dovuta attenzione al significato delle parole" insieme al "farneticare come vicenda ordinaria che governa da sempre la specie di Adamo in ogni luogo e in ogni tempo".
   Giammai si trascuri quel "farneticare" che è la più assidua quanto rimossa occupazione dell’uomo, questo produttore di eventi al pari di lui farneticanti.
   Si sappia, nello stesso tempo, che buon antidoto contro la farneticazione è l’attitudine a distrarsi, magari scrivendo: poiché frutto della beata distrazione è la possibilità di cogliere, nella notte in cui tutte le vacche sono nere, "il canto dell’usignolo" che, nel suo santuario di solitudine, marca "l’istante in cui vive l’eterno".
   Immedesimazione, infine, in foggia di trasposta, mimetica autobiografia di Anepeta, riflettente, col suo autore, i tanti Anepeta che scrivono: per piacere non a te - inetto adoratore della precettistica e utente di corsi "sulla qualunque" - ma a sé; e, dopotutto, per l’effetto-Flaubert, un po’ anche a te... A te che sei uno, nessuno e tutti i personaggi, talvolta deformi perché veri, di un erratico Manuale
(...)

II. Non c’è letteratura senza la coscienza che essa coesista, oltre che con la pura invenzione di sé, col pensiero rischiarato dalla luce della critica. Se, convenzionalmente, possono dirsi "d’invenzione" la scrittura narrativa e poetica, e speculativo-critica quella saggistica e filosofica, è il caso di tenere conto che, in Zoi, tali piani si sostengono a vicenda. Tanto che per l’autore s’afferma l’esigenza di esprimere un tutto inteso non in termini quantitativi bensì di una "intensità diffusa". È quanto può chiamarsi la necessità di fare aderire parola, pensiero e cosa, penetrando con trepida cura nel vivo di argomenti modulabili nella stessa esistenza. (...)

 


 
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