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L'Area di Broca
Indice n.68-69
 

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"L'area di Broca", XXV-XXVI, 68-69, 1998-99

SCRITTURA

 

Alessandro Franci

L'estate del '70

La mia amica abitava al piano di sopra e spesso, dalle scale ripide di mattoni rossi, scendeva nel cortile di casa nostra, per giocare con me; aveva capelli chiari, occhi color oliva, ed un nome bellissimo: Fiammetta. Giocavamo a scrivere; ancora non conoscevamo la scrittura, la imitavamo. Fiammetta usava il lapis come fosse il pennino di un sismografo, così sui fogli imprimeva nervosa il tracciato grafico di scosse telluriche, prodotte dalla sua allegra esuberanza. La mia scrittura invece voleva somigliare a quella di mio padre: a volte lo avevo visto, con la stilografica, rigare ignoti messaggi. Io dicevo alla mia amica di non scrivere in quel modo disordinato, ma di fare come me, cioè segni più alti in verticale, e lunghi verso il basso, poi le suggerivo anche di separare i segni ogni tanto l'uno dall'altro, ma Fiammetta non mi dava ascolto. M'infuriavo e lei mi guardava ridendo, dopo si avventava su altri fogli con orribili zigzag. In quei giorni riempimmo intere pagine di complicati geroglifici; non giocavamo con i fogli, il gioco era scrivere. Scrivere a nessuno e per nessuno; la scrittura non doveva comunicare o informare, doveva essere solamente. Poi, passato quel breve periodo, non abbiamo più scritto, infine siamo andati a scuola, sono trascorsi anni, e tutto è finito.
   Nell'estate del '70 io avevo già ricominciato, scrivevo in solitudine però, un po' per pudore e un po' per non so cosa. Non imitavo più la scrittura di mio padre, anzi, quasi degli orrendi zigzag spesso prendevano il posto di un ordine costantemente cercato e raramente incontrato. Forse, per me, il gioco era ancora scrivere: non doveva essere interpretata la scrittura, bastava ci fosse. Capitava anzi che non riuscissi neppure a leggere per intero ciò che avevo scritto, oppure mi sorprendevo per certe espressioni, perché non le riconoscevo più.
   In quell'estate di quasi trent'anni fa, avevo quindici anni ed una bicicletta. Avevo tutto. Nei pomeriggi arroventati pedalavo infaticabile e felice sotto cieli azzurri, lungo le strade di fianco ai campi gialli di sole. Spesso da solo o insieme agli amici; con loro però era diverso: bisognava gareggiare, oppure fermarsi per inutili motivi; ed allora mi annoiavo, mi stancavo ad ascoltarli e ad imitare i loro giochi. Fiammetta non scriveva più, almeno credo, però ci vedevamo ancora. C'incontravamo dopo le case, seduti sul muretto al riparo dal sole, voltati verso i campi gialli. Parlavamo, e lei a volte rideva così forte che sembrava qualcosa s'incrinasse nella campagna; quando rideva, si muoveva scomposta e mi sferzava con i capelli. Avrei preferito non sentirla ridere in quel modo, ma ero felice se i suoi capelli mi sfioravano il viso. Io le leggevo le mie poesie con aria altera, lei assorta le ascoltava. Portavo con me un quaderno esile a righe, con stampato in copertina "Le muse inquietanti" di De Chirico; lei chiedeva cosa avessi scritto di nuovo, io aprivo il quaderno ed iniziavo a leggere. Un pomeriggio di quell'estate, avevo appuntamento con la mia amica al solito posto. In discesa pedalavo così forte che il manubrio mi sfuggiva di mano; infilai il ponte in fondo, ridendo per la corsa. Era quella la riposta sfida: passare il ponte veloce e frenare di colpo subito dopo, prima della curva. Frenai e poi voltai, infine ripresi a pedalare senza fretta, guardando il ruscello con un velo d'acqua, e di là dal torrente, un bosco che risaliva la collina; era uno spettacolo vederlo da lì... e così feci anche quella volta, ma proprio in quel momento, un colpo di vento lo scosse, e per un istante si levò in aria un profumo di fresco e d'erba. Frenai, quasi fermandomi; ma tutto era già tornato immobile e assolato. Pensai: "Lo devo scrivere", però non mi chiesi cosa, immaginai solamente di scrivere; ora non c'era tempo, ma dopo l'avrei fatto. Poi fui traversato da strani brividi, e visitato dal desiderio di fare un'altra cosa, una qualsiasi altra cosa che non fosse quella che stavo facendo. Avrei scritto; sicuramente! Lo dissi anche a Fiammetta. "Cosa scriverai?", chiese speranzosa, ma io non seppi rispondere, le promisi però che avrei scritto di quel vento e di quel profumo. "Perché?", domandò ancora guardandomi attenta. Dissi che non lo sapevo, sapevo soltanto che l'avrei scritto.
   Avevo un dolore in petto, lieve ma insistente e a tratti credevo di avvertire ancora il profumo. Fremevo per qualcosa che non sapevo cosa fosse, desideravo andarmene, ma anche restare con la mia amica, però in silenzio; non volevo dire più niente e non desideravo ascoltare nulla. Fiammetta quel pomeriggio non rise fragorosamente come al solito, fu pensierosa, come adirata con me. Io però mi sarei dedicato a quel vento e a quel profumo, sarei tornato a casa e avrei scritto; tutto il resto non aveva un senso preciso. Fu un pomeriggio lento e sempre più fresco; i profumi erano vari, ed una leggera brezza sembrava somigliasse al vento di poco prima. Venne la sera, dopo notte, infine giorno e ancora notte. Passarono mesi e poi passarono anche gli anni.
   Ho scoperto di possedere ancora il quaderno con le muse di De Chirico, e per curiosità, per scrupolo, ho controllato dalla prima all'ultima pagina, ma del profumo e del vento nessuna traccia. Com'è possibile, mi sono chiesto, che mi sia sfuggito di mente quello che allora mi sembrò tanto importante? È stato così però, non ne ho mai parlato. Ai primi di maggio di due anni fa ho comperato una bicicletta; da tempo ne parlavamo con gli amici. Oggi ci sono biciclette magnifiche, in lega leggera, con pneumatici a sezione larga e ruote dentate fino a 24 rapporti; manubri a presa centrale e tanti altri accorgimenti. La mia di allora era blu, senza moltipliche né altro, pesantissima; ne ho comperata una leggera color fucsia e grigio metallizzato. Con gli amici se ne parlava elencandone i benefici. Si diceva, visto che si va da casa all'auto, alla sedia dietro la scrivania, si tratta di far circolare il sangue in quei punti in cui ristagna.
   È stato un caso, mi sono trovato per quella discesa, prima del ponte. Non ho pedalato affatto questa volta, anzi frenavo fino ad avere ben saldo il manubrio tra le mani. Come facevo allora a correre in quel modo, il ponte è così stretto... l'ho infilato cautamente, senza mai lasciare i freni, ho curvato a destra e ho ripreso a pedalare piano, perché il sudore mi si era gelato addosso, il caldo di nuovo mi soffocava, e l'affanno ancora pulsava al collo e alla gola. Senza accorgermene mi ero allontanato troppo; mi sono fermato subito, e ho ricordato il vento, mi è tornato in mente proprio allora tutto quanto, ho ripensato a Fiammetta, al quaderno con il quadro di De Chirico e al profumo. Ho poggiato il piede sul muretto e ho guardato in basso il torrente, e più in là il bosco. Tutto sommato non mi sembra che sia cambiato tanto da allora, compreso che si percepisce sempre nell'aria profumo d'erba, e le fronde del bosco, per lievi brezze si scuotono. Così ammiravo con un velo di nostalgia quello spettacolo, mentre aspettavo che l'affanno si placasse e pensando a come avrei fatto per tornare. Forse c'era un'altra via, senza bisogno di risalire tutta la china che prima avevo disceso con prudenza? Ma il fiato pressava ancora in gola, allora scesi, e aspettai calmo, seduto sul muretto, per evitare malori o conseguenze peggiori. Guardavo il bosco, l'acqua bassa del ruscello, mentre sentivo il respiro adagio riordinarsi; all'improvviso è passato un ragazzo in bicicletta, avrà avuto quindici anni: ghepardo fiero, si è voltato un attimo guardandomi, poi si è prodotto in un movimento proprio felino, e alzandosi sui pedali, si è allontanato composto e silenzioso. Forse guardandomi in quell'attimo avrà voluto accertarsi che stessi bene, mi avrà visto affannato e rosso per il caldo, e avrà creduto che potessi avere bisogno d'aiuto, poi però avrà notato il mio mezzo sorriso, dovuto al rinnovato benessere, e alla simpatia istantanea della strana coincidenza. Lo ammetto, ho anche fantasticato sull'ignoto ciclista, che avesse appuntamento con la sua amica, e che oltre a me, in quel punto potesse notare un'atmosfera insolita e, per questi motivi, avesse necessità di scriverlo. Poi però, quasi desiderando una sua sconosciuta felicità immune da quel luogo e dalle mie idee, ho anche immaginato che forse non ne valesse la pena.
   Il felino fu subito lontano, non lo vedevo già più, mentre raccoglievo l'umiltà necessaria per risalire in bicicletta e mettermi alla ricerca di un'altra strada. Fiammetta con i suoi zigzag probabilmente ha trovato subito la giusta via, io sviato dai ripetuti tentativi, dopo tanti anni, sono tornato nel solito punto. Così - penso ora - se ebbi allora la pretesa di insegnare a simulare la scrittura, altrettanto oggi dovrei persuadermi di quanto mi sbagliassi; forse si trattava soltanto d'imboccare una via qualunque, e percorrere quella scoprendo strada facendo un cosmo di parole, invece di andare a cercarle una per una tutti i giorni per tanti anni. Percorrere una strada per vedere dove porta la scrittura, che sia lei a parlare, lasciandosi scoprire a poco a poco. Per quanto mi riguarda ho impiegato quasi trent'anni per parlare di quel profumo e di quel vento, anche se ciò che ho detto non è neppure quello che volevo dire veramente. Ho avuto persino il dubbio che fino ad oggi abbia scritto solo per raccontare di quel fatto, e per tanti anni, pur provandoci, ho ripetutamente sbagliato strada, disorientato dagli ingorghi di parole, finendo frastornato in altri luoghi, com'è successo in bicicletta due anni fa.

 


 
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