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L'Area di Broca
Indice n.75
 

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"L'area di Broca", XXIX, 75, 2002

AMICIZIA / COOPERAZIONE

 

Andretta Bertolini

In forma di epistola
 

"Anche per il pensiero c'è un tempo per arare e un tempo per mietere"
(L. Wittgenstein)

Carissimi,
da quando ho ricevuto la vostra ultima lettera vi penso con nuova insistenza ma solo adesso credo di aver maturato il senso di questo mio pensarvi. Non conosco la misura esatta del vostro "difficile" e allora "vado a braccio", o forse dovrei dirvi vado "a senso": a sensi!
   In questa ottica del pensarvi dentro un doloroso scacco, un vischio niente affatto simbolico di sofferenza, ho scritto qualcosa per voi, che forse trascende il dato personale, il "fatto" e svela un aspetto anche paradigmatico del dolore, dell'anima e del corpo a volte accomunati da un sottile e drammatico complotto silenzioso. Vorrei provare a dirvi che la speranza possiede un suo personale calendario ma è l'unica finestra aperta che possiamo offrire alla nostra anima (laica!); il "coraggio" (comprendo bene!) è un pensiero debole, certo è una delle molte parole discutibili con referente approssimativo, che hanno senso solo se le poni in relazione con qualcuno o a qualcosa! Come libertà, amore, felicità: di fatto anche "il coraggio" può dirsi oltre modo debole quando hai un dolore piantato tra cuore e cervello (che poi sono la stessa cosa). Ma non conosco una parola che gli assomigli, che possa almeno tentare di rendere docili i presìdii della mente attraverso le "ragioni del cuore". Abbiamo imparato - purtroppo o per fortuna - che talvolta diviene indispensabile rinunciare all'infantile disegno dove tutto ciò che è "indesiderabile" è anche evitabile. Dobbiamo accettare l'esistenza di insulti naturali come il guasto, la malattia, la morte, non eludibili; giova ricordarci e ripeterci che non siamo semplici oggetti meccanici che possono, in taluni casi, anche essere "aggiustati". Noi non sempre possiamo tornare ad essere "perfettamente funzionanti", come nuovi.
   La scienza (e la medicina) vanno guardate con sospetto quando lasciano intendere che una tale operazione è possibile; qualcosa può e deve essere "riparata", ma non tutto, non sempre. Sforziamoci di non considerare con perpetua supinazione ogni specie di sopruso, ogni avverso destino, il coraggio della speranza da solo non basta, a nulla vale senza la volontà dell'impegno...
   Carissimi, per quanto sia calata quotidianamente in una realtà che denuncia la furia imprevedibile e distruttiva della malattia, non riesco a considerarla solo un insulto alla natura o "un barbaro feroce"; piuttosto mi appare come un monito arcaico che pur atrocemente ci ricorda (come ogni accidente del resto) la nostra stupefacente labilità, la nostra strabiliante impotenza, quel ripugnante narcisismo che sovente ci fa credere di essere il mondo ed il suo centro. Imparare a difendersi dalla radicata presunzione di essere invincibili ed onnipotenti è difficile - credo - quanto imparare a sperare, giacché queste fondamentali lezioni nessun maestro è in grado di impartircele. Solo la vita nel suo complesso divenire può "offrircele" e non di rado sotto le specie di macabro sberleffo; costringendoci - nostro malgrado - a comprendere come la forma dinamica del mondo sia generata e governata dalla lotta infinita e senza riposo tra la vita e la morte; fenomeni capaci di contendersi il tempo e lo spazio, attrarsi e respingersi ad ogni istante e in ogni punto dell'universo, in un conflitto permanente del quale intuiamo, solo raramente, la potenza irriducibile e destabilizzante.
   Ciononostante si fa strada, nel cicaleccio confuso delle emozioni, l'illusione di una "ragione ultima", di un "senso nobile" per esperienze che paiono non averne alcuno, se non quello - chissà!!?? - di costringerci attraverso percorsi dell'anima e del pensiero, né patetici né inutili, al confronto, all'incontro con l'altro che sta ora fuori, ora dentro di noi.
   Coloro i quali per scetticismo, zelante razionalismo o per più semplice mancanza di fede non si riconosco nei precetti e nei dogmi rassicuranti di un credo religioso (è il mio caso e forse anche il vostro!) possono giungere a considerare come rovello alienante il pensiero di una vita "non scelta" e di una morte "non richiesta". L'enigma è certo troppo grande per poter essere svelato da creature come noi, alle quali è dato solo di assistere impotenti e stupefatti all'implicita, nel contempo misteriosa fisionomia "dell'esserci" e del non "esserci più"; dato che possiamo solo assistere al nascere ed al morire altrui: del nostro nascere e morire non è dato di sapere, non ci è dato di avere memoria. Su tutti incombe questa comune traiettoria, questo segno terminale. Quando la malattia, paradossalmente, ci appare tanto più reale perché mortifica chi amiamo tanto meno ci risulta comprensibile. Eppure, la malattia di creature amate, mi ha permesso di incontrare sul mio cammino uomini e donne che non si sono arresi dinanzi a questo temibile cimento, che sono rinati, ma non dopo la morte (poiché di tali resurrezioni non è dato di sapere) ma piuttosto hanno attraversato, intera e devastante, la morte nella vita, risorgendo. Hanno (difficile a raccontarsi) scoperto una possibile via al cambiamento, al confronto terribile e rivoluzionario con la parte più oscura e profonda di sé. Talvolta, quando percepiamo l'intrinseca fragilità di questa rapida transizione sulla terra, ci poniamo "in ascolto" e riflettiamo sul senso intero "dell'esserci". Taluni cessano di essere anonima materia, che porta in giro la propria vita (o magari il proprio pianto silenzioso) ostentando "bellezza-intelligenza-cultura" o peggio ancora "la macchina-la casa-il conto in banca" e comprendono, giocoforza, che nulla è più aleatorio del possedere "cose" o persone.
   La troppa nudità materialista - comunque - può fare danno tanto quanto il troppo vestimento filosofale. Il rischio è di smarrirsi in un dolore astioso e senza ritorno, oppure iniziare a riconoscere in sé le prime insperate tracce d'una forza capace di farci uscire dalla nostra mancanza di orizzonte, o semplicemente farci accettare il nostro nuovo e ineludibile cammino; rafforzati in umanità, felici di esserci "nonostante tutto". Forse viviamo unicamente per portare a compimento "un progetto" in larga parte incomprensibile, bello ma anche terribile; e finché siamo nella vita (anche a livelli minimamente sopportabili) occorre impegnare energia e volontà per non espropriare se stessi da una irrepetibile singolarità: per essere se stessi, senza pericolose, premeditate esautorazioni. Altrimenti corriamo il pericolo non tanto di non sapere "perché ci siamo" (chi può dirlo senza il dono radicale della fede!?) ma piuttosto perché di questo "esserci" abbiamo fatto un anonimo ed irrisolto "niente".
   Posso dirvi vi voglio bene?

Andretta

Carrara 12 maggio 2002
 


 
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