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L'Area di Broca
Indice n.73-74
 

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"L'area di Broca", XXVIII, 73-74, 2001

TERRA

 

TERRA, GLOBO, GLOBALIZZAZIONE

Questionario

"Non dobbiamo permettere l'imposizione
di un pensiero unico che porta soltanto
a vedere una minoranza privilegiata
- il 20% della popolazione del mondo -
a consumare l'80%
di quanto produce la nostra Madre Terra".
Rigoberta Menchù
(premio Nobel per la pace)

Ideato su suggerimento di Gabriella per completare indispensabilmente un fascicolo programmato tanti mesi prima, questo mini-questionario è stato diffuso alla fine dello scorso luglio, subito dopo i fatti di Genova. Di questi molto risentem anche se i temi e i problemi che le due domande affrontano sono precedenti e - se possibile - più "mondiali" rispetto a quelli agitati delle tragiche giornate genovesi. Gli eventi dell'11 settembre, poi, l'hanno reso insufficiente a rendere la complessità e terribilità del momento storico che stiamo vivendo. Ugualmente abbiamo pensato di lasciare domande e risposte così come sono state formulate. Vi proponiamo, dunque, le brevi riflessioni seguenti come materiale insieme "fisso" e fluido, per un pensiero cge tenti d'essere "non globalizzato", critico, divergente. (Mariella Bettarini)

1) Terra, globo, globalizzazione, sfruttamento indiscrimanto del pianeta, sfacelo umano e ambientale, gigantesche responsabilità dei Paesi industrializzati, del neo-liberismo, delle multinazionali. D'altro canto, forse una speranza: il movimento dei "popoli di Settle" in crescita in tutto il mondo; un rinnovato pacifismo, che esclude qualunque tentazione di violenza. Che cosa ne pensa?

2) I padroni della Terra e - per contro - miliardi di donne e uomini "senza terra". Donne e uomini "senza". La parola, la scrittura, che ruolo possono avere in questa terribile disuguaglianza?
 

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Risposte di:
Velio Abati, Vittorio Biagini, Graziano Dei, Mario Lunetta, Massimo Morasso, Luciano Neri, Walter Siti.
 

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Torna su Velio Abati: Dove c'è oppressione, c'è rivolta

Chi sta in alto ne ride e chi sta in basso tende a scordarlo, ma la sua validità è lì, come il respiro del mare, che si raccoglie senza clamori fino agli urti nei porti, magari di Genova. Per questo non si deve mai cedere alla disperazione, anche se bisogna ragionare. Né bisogna riempirci la bocca di parole. Le decine di migliaia di uomini e donne di buona volontà che una mattina si sono riconosciuti hanno conquistato dentro di loro la consapevolezza ferma, non disperata che per la terra, per l'acqua e per l'aria, voglio dire per l'uomo non ci si unisce, ma ci si divide. Percorrendo le strade e le lingue dei dispersi, di coloro che sono stati buttati da parte, hanno alla fine incontrato una parte di sé, hanno scoperto una lingua comune, da cui si deve imparare, né ce la toglieranno. In Italia solo gli storici, i gazzettieri prezzolati o i padroni del mondo conoscono quanto successe trent'anni fa. Per questo quella lingua che senti nella strada è un'altra cosa.
   Eppure bisogna ragionare, guai fermarsi alle apparenze immediate, tanto più che disponiamo di un buon inizio se il giovane precario di se stesso, il senza orario del call center, l'insegnante non a posto con tutte le "i" dettate da colui che non si può nominare, la notte non dorme perché lo preoccupa lo Sri Lanka: è segno che usa l'intelletto. Il secondo buon inizio è la perdita di senso, nelle minoranze operose di cui si sta discutendo, della favola grottesca che il mondo si divide tra un pugno di nani delle multinazionali e l'umanità in sfacelo, tra un qui evoluto e un là arretrato; per quel processo che è stato dietro la nave di Colombo mai come oggi è vero che la donna afgana o il palestinese cui il reparto del genio militare ha dirupato la casa e il campo o l'indio sono io. Ma non ci si consoli con l'indignazione, perché mai come oggi io sono anche il talebano, anche il generale israeliano, anche il latifondista. La mia lotta è anche contro di me.
   La società che ci siamo costruita pare non avere centro, o, se vuoi, pare avere un centro invisibile, ma certamente è tenuta da una rete flessibile e solidissima di gerarchie, dove ognuno dosa il proprio dare e il proprio avere. Chi siamo? Noi che qui scriviamo e ci parliamo. Come guadagniamo quanto ci impedisce di diventare barboni, di acquistare un libro, di fare un viaggio? A chi vendiamo il nostro lavoro? Partiamo dalle domande elementari, il resto può essere rimandato. Siamo, credo, o siamo stati, insegnanti, giornalisti, lavoratori autonomi - non so di quale generazione - addetti vari all'industria dell'informazione, siamo intellettuali di massa. Ciascuno nel proprio posto di lavoro cominci a fare i nomi e i cognomi di chi comanda, di chi è ciascuna particolare decisione, dove si prendono le notizie, chi le seleziona; si cominci con un elementare principio di trasparenza, si scoprirà che non è affatto indolore, che molti, giustamente, ci toglieranno il saluto. Il passo successivo sarà dire il proprio parere, indicare le falsità cui noi stessi e chi ci sta accanto è spesso indotto, questo potrà già mettere a rischio il posto di lavoro, non potrà dunque essere fatto se non in gruppo, anche piccolo.
   Partiamo, compagni, dai rapporti di produzione. Non è vero che la società umana attuale è senza centro, anche se è difficile da vedere. Ma già dire "in una certa misura l'amministrazione e il governo degli Stati Uniti sono il nemico del genere umano", può essere un buon inizio. Non è vero che le scelte, i comportamenti degli uffici studi della finanza internazionale, dei dirigenti dei gruppi militari e industriali, degli organismi internazionali, degli stati, come di chi si reca a lavoro e al mercato siano dettate da malvagità. Le leggi che governano le nostre idee come le nostre azioni non sono arbitrarie. Questo oggi sommamente ci sfugge.
   "La parola, la scrittura", mi si chiede nel vostro questionario, e credo d'aver risposto per l'essenziale. Posso solo aggiungere, senza aver tempo di spiegarlo, il mio fermo convincimento di evitare ogni confusione tra generi e codici. Se con quei due termini, niente affatto sinonimi, si vuole intendere, cosa che io non ho inteso nella mia risposta, la produzione poetica e narrativa, l'argomento ha un ordine di priorità inferiore, mentre l'argomentazione sarebbe stata più mediata, quindi anche più lunga.
 

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11 settembre, lo schianto, un nero tuono spaccato dentro l'altezza,
un nero cuore di fuoco divora lo specchio, divora l'adesso.
Un attimo prima le pareti erano l'ordine certo del mondo, di là dal paesaggio disteso intorno
nel lento aprirsi d'un'altra giornata dolce di fine estate,
tutto sospeso nella sottrazione di suono delle pesanti vetrate
dentro la stanza dove è ripreso il lavoro, e il vivo tepore di ognuno
arretra dietro la trama di formule-cifre-rapporti, la forza incorporea di note
che solo lontano ritornano sostanza pesante e sapore.
Poi il tempo s'è fatto punta dov'è compresso il rovescio del mondo,
l'orbita cieca che ognuno riconosce, strappata da sé l'amnesia
strappato l'essere proprio come una pelle incendiata.
La tesa geometria torna rotta materia, le lastre pulite
sono una nuvola di schegge, la massa discende con strana lentezza,
poi un solido denso d'ignoto sapore preme la carne, schiaccia il suo spazio,
riprende il suo tenero grumo nel peso del proprio silenzio.
Toccato il centro, colpito il punto più ricco, colpita una certezza
anche del nostro sogno e un folto di nuda vita.
Anche il terrore unisce l'intero mondo.
Rottura, ma che conferma l'ombra di anni avvelenati,
il mutamento accresciuto e le differenze maggiori,
le guerre e gli stermini, l'aumento delle masse di disperati.
la fame e la malattia, la terra più sporca e più consumata.
Figura della modernità, nostro sogno del progresso, avvenire che si impone
sull'arretratezza, unifica il bene di tutti: più sentire,
più essere terra e mondo, la tecnica, la produzione
che scioglie dal bisogno, l'agio che costruisce l'umano,
l'intendersi al di là della paura, il crescere in una cultura più grande.
Credendo che non fosse che un moto naturale.
Ma il moto che vince è la circolazione del capitale,
più forte d'ogni stato, senza alcuna regolazione,
occhio che divora ogni spazio e al centro ha uno scotòma,
divide l'antica arretratezza e produce un'arretratezza maggiore,
costruisce sempre nuovi i suoi interni e la parte che non doma
la lascia come un resto imbarbarito, una furia senza ragione.
Miseria di un governo che non sa essere di tutti, di un governo che è retto dai venditori.
Miseria di una politica che non sa immaginarsi trasformazione.
Il moto ha il frutto nero del vuoto e del dolore.
Ma l'umano che pure resiste, oltre la piegatura o l'orrore,
l'umano che è il suo non ancora, ma nasce in ogni presente, ogni volta in ognuno,
e presto poi impara la delusione, è disperso, di rado è cresciuto alla forma comune,
al colloquio che siamo, mai ancora al governo del mondo.
Nella barbarie di questo ordito, dietro la seta della rappresentazione,
il bisogno di accogliere il nuovo che appare.
Importanza del movimento dinanzi a una politica che non sa guardare
che ai giochi sempre chiusi del già dato.
Importanza della gioventù perché ha meno soggezione,
perché trova da una forza più vera la sua confidenza.
Politica è la gioventù, impolitico è questo stato
che oscilla tra incapacità e cieca violenza.
Riuscisse tutta insieme, una nuova generazione
a schiudere il possibile del suo tempo, a nutrirne le proprie domande.
Ma tutto è senza speranza se non sa crescere alla politica grande.
Perché la poesia davanti a questa miseria, davanti a questo orrore?
perché la poesia dopo Auschwitz (ripetiamo)
e dopo i mille massacri e accanto alla morte che ci sta dentro?
Ma Hölderlin. Ma ciò che resta, lo fondano i poeti, forse, contro il nostro timore
possiamo crederlo ancora, forse ancora è vero.
L'umano va accolto e va costruito, noi siamo,
la tecnica che dalla ricchezza dispersa fa il mondo,
che mette la ripetizione nell'indistinto, disegna nel fuori la nostra forma,
ripetizione del nostro nel tempo di questa terra,
ripetizione nostra e della terra nel nuovo e nel differente.
Ma misera e feroce è la tecnica se la parola è spogliata. E in questo scontento
è forse la poesia che sa tentare la voce infantile dell'intero
e darci una mappa per ogni giorno e una memoria che non sia guerra,
la poesia che per essere verità dev'essere sempre tradimento.
Che altro dentro il frastuono e il risucchio del vuoto se non tentare di dire le nostre date.
Che altro dentro questo sogno di ferro se non balbettare il qui e il non ancora del nostro risveglio,
l'ora nostra e del mondo, divisa tra orrore e colore mai stato.
 

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Torna su Graziano Dei: Quale globalizzazione

È un tema complesso, articolato e discusso quello che sta caratterizzando questo inizio di secolo.
   Globalizzazione.
   La parola ha in sé un suono positivo, suggerisce l'immagine di una umanità riunita, e forse (finalmente) felice, continuamente in contatto con se stessa, sempre aggiornata e quindi preparata su tutto e a tutto.
   Ma è anche una parola che spesso assume toni inquietanti, che evocano appiattimento e dissoluzione delle culture, delle differenze, ci parla anche di una società in cui ci si adegua o si è perduti, in cui lo stesso concetto di libertà, sempre più sbandierato e abusato, è destinato a infrangersi sui confini del cosiddetto pensiero unico: o si è dentro o si è fuori.
   Superflua la domanda se questo sia giusto o sbagliato, questo "è". La strada è segnata, il gradino evolutivo marcato. L'umanità è destinata a "globalizzarsi".
   Il problema a questo punto è capire "come" sta avvenendo questo processo, e "chi" realmente ne è coinvolto, e ne trae i benefici. Insomma ancora una volta chi sta dentro e chi sta fuori.
   Il punto fondamentale è che l'elemento che distingue questo fenomeno, non è la cultura, l'incontro tra civiltà, la conoscienza, l'interesse per l'altro come elemento di crescita e di confronto; il fine principale è il profitto. Avere a disposizione mercati sempre più vasti.
   Il che non rappresenta un male di per sé, perché lo scambio commerciale si è sempre rivelato un ottimo legante tra culture avvicinate da interessi comuni, ma adesso il discorso è un po' diverso; innanzitutto perché il fenomeno assume dimensioni planetarie, in secondo luogo perché i tempi in cui si svolge l'interazione sono immensamente più rapidi di quelli dovuti alla conoscenza, all'integrazione e quindi alla comprensione reciproca.
   In terzo luogo la sproporzione politica ed economica tra il cosiddetto nord e sud del mondo, è così vasta e marcata da dare agli uni un totale controllo sui mezzi e sullo sfruttamento delle risorse, quindi sulla ricchezza.
   Sappiamo a che cosa ha portato questo enorme sbilanciamento dell'uso delle risorse. Stati che impoveriscono sempre di più e altri che prosperano imponendo il prorio modello di sviluppo.
   Un fenomeno di una portata così vasta, non poteva che provocare (per fortuna) una risposta sociale altrettanto vasta, variegata e che abbraccia anche aree politiche diverse. Sicuramente culture diverse.
   Il cosiddetto "popolo di Seattle" (ma forse di Genova, e di moltre altre città) nelle sue contraddizioni e nei suoi aspetti discutibili, rappresenta una risposta forte a questo fenomeno.
   Potremmo dire una risposta genuinamente "popolare", perché nata fisicamente nelle strade, nei luoghi della contestazione, una insofferenza per l'arroganza dei cosiddetti "potenti" lontana dai partiti e dagli apparati. In questo senso, anche radicale, ma con un grande potenziale trainante.
   Personalmente non nutro molta simpatia per coloro che gridano "assassini" ai poliziotti, e non mi è facile identificare la lotta a un fenomeno cos" complesso con slogan spesso presi in prestito da altre e più antiche rivoluzioni, o con parole che sanno un po' di vecchia guardia insurrezionale. Troppo sbrigativo, viene da dire. Vorrei sentire analisi più profonde, mi piacerebbe vedere alla testa di quei cortei gente che non usa slogan ma parla di cose concrete, proposte, cifre; quanta popolazione è al limite della fame; quanto incide la decisione di tagliare dal mercato un prodotto per i popoli che su quell'unico prodotto basano la loro economia.
   Ma la piazza è la piazza, lì si va per protestare, i cortei scuotono le coscienze e parlano per approssimazioni. Quello che però sta realmente accadendo in quelle piazze è un'altra cosa; è la nascita di una consapevolezza diversa, che anche nelle sue contraddizioni e nelle sue semplificazioni, può dare il via ad un pensiero più ampio, libero da ideologie, e da schieramenti di partito, che sappia guardare al mondo da angolazioni variabili.
   In fin dei conti è anche "il come" percepiamo gli altri e la reazione che abbiamo di fronte ai problemi che ci circondano che ci fa essere quello che siamo.
   E cominciare a cambiare e a cambiarci, credo sia una delle sfide più difficili ma anche più urgenti di cui tutti abbiamo bisogno.
 

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Torna su Mario Lunetta

1) 11 settembre 2001. La distruzione delle Twin Towers di Manhattan e il vulnus al Pentagono sembrano azzerare d'un colpo la storia degli ultimi cinquant'anni, scritta in stile autoritario dalle due superpotenze, e - da un decennio a questa parte - dalla sola rimasta, gli Stati Uniti d'America. E' anch'essa un frutto micidiale della globalizzazione: la velocità degli scambi, degli spostamenti di uomini e merci, l'incremento furioso dei profitti, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse e delle persone si sono ritorti in pochi minuti, in modo orrendamente sanguinoso e devastantemente simbolico, contro la fonte massima del sistema deregolato, e nel suo stesso cuore. Molti, moltissimi incolpevoli, molti, moltissimi innocenti (bambini, animali) sono stati sacrificati senza tanti complimenti. Chi non ha più niente da perdere, chi è quotidianamente costretto ad assistere pressoché impotente alla distruzione di esistenze amiche e fraterne, considera la vita umana come pura entità numerica. Su un piatto della bilancia un certo numero di vite (compresa la propria), sull'altro lo strapotere brutale del nemico. Se il sacrificio delle prime può danneggiare quest'ultimo, non c'e esitazione: il colpo arriverà, costi quel che costi. È anche questa la logica spaventosa della globalizzazione, fatta di numeri, non di persone, di vantaggi speculativi, non di destini. Si è subito detto, dopo l'atroce "spettacolo", che dopo le Torri Gemelle la storia del pianeta sarebbe stata diversa: cominciava un altro giro della roulette impazzita che sembra essere diventata la terra. Si è levato il "terrorismo" a una dignità diabolica e al tempo stesso risibilmente ipocrita: quasi che il fenomeno funzionasse in modo assolotamente referenziale e partenogenetico, e non fosse - com'e di fatto - alimentato, quando non creato da quell'autentico brodo di coltura che sono gli egoismi dei paesi più ricchi, che si considerano per ciò stesso depositari di tutte le verità e di tutti i diritti: non escluso, se non in primis, quello di asservire i paesi e i popoli più deboli. Sono i meccanismi, le dinamiche del liberismo selvaggio, cui è approdata senza più remore l'odierna fase della storia del capitale, vincente su scala planetaria, e al quale in certi specifici casi (l'ISLAM finisce per diventare una comoda metafora onnicomprensiva) si mescola un fanatismo ideologico-religioso, un integralismo (reciproco) che agisce in termini ciechi di "scontro di civiltà". I detentori del privilegio hanno finora fornito risposte a questi immensi problemi solo in chiave di rapporti di forza e secondo logiche puramente militari. Strada chiusa, ovviamente. Mantenendosi all'interno di una spirale del genere non si aprono nuovi orizzonti possibili, nuove praticabili dimensioni di convivenza. La via è al contrario una sola: quella del ripensamento profondo dei modi di vita associata, di produzione e di distribuzione della ricchezza: insomma, una revisione radicale del sistema-mondo concepito finalmente non più come sistema di dominio ma come rete di condizioni paritetiche. Se non vado errato, questa è la vera democrazia, qualcosa di sostanziale, qualcosa che smetta di praticare le aberrazioni più luride sotto le vesti di una libertà puramente tecnica, formalistica, bugiarda. Ha scritto René Passet su Le Monde Diplomatique, luglio 1997: "Gli scambi puramente speculativi, di valuta contro valuta, ammontano in tutto il mondo a 1.300 miliardi di dollari al giorno; vale a dire cinquanta volte più degli scambi di merci - poco meno dell'importo globale delle riserve delle banche centrali del mondo intero pari a 1.500 miliardi di dollari. Nessuno stato è quindi in grado di resistere a pochi giorni di speculazione (...). I centri decisionali si spostano così dal livello nazionale a quello planetario e dall'ambito pubblico alla sfera degli interessi privati, che in ultima analisi si riducono a quelli di alcune istituzioni finanziarie. I loro operatori si muovono secondo la propria logica, che non è quella della creazione di ricchezze, della valorizzazione dei territori o del benessere umano, ma della messa a frutto di un patrimonio finanziario nel minor tempo possibile". Giochi facili. Giochi sporchi. La chiamano globalizzazione. Con tutta la sua generosa confusione, ma anche con la sua capacità di aprire spazi di libertà nuovi; con tutta la sua franchezza così poco "politica" e con tutta la sua irriducibilità, mi pare che il movimento "No Global" (composto com'è noto da una quantità di sigle che cercano una sintesi in un internazionalismo della pace e della non violenza) rappresenti oggi la sola realtà che dia segnali forti in direzione di un altro mondo possibile L'importante è che sappia crescere sia sul piano strategico che su quello tattico, soprattutto evitando trappole come quelle di Genova, cui le cosiddette forze dell'ordine - come da documenti non smentibili - non sono state estranee.

2) La globalizzazione investe anche la cultura e le sue forme specifiche. La prima avvisaglia del blob indiscriminato che avrebbe interessato anche i linguaggi creativi la si ebbe, già più di un ventennio fa, con la diffusione del postmoderno: con l'addomesticamento, cioè, del conflitto e della contraddizione all'interno dei territori dell'estetico. Oggi si lavora, nelle centrali del consenso espressivo, alla creazione di condizioni (imposte) che omogeneizzino i connotati delle culture entro una sorta di macro-esperanto neutrale, privo di punte, di creste, di lacerazioni. Nelle arti visive, nel cinema, nel teatro e nella musica la tendenza è visibilmente massiccia. Della TV è superfluo parlare. Più truccata si presenta in letteratura, anche perché in questo settore il business è di proporzioni assai più esigue, e molto più ridotta la sua c2pacità di diffusione e di impatto. Fatto sta che l'espropriazione avviene non soltanto a livello di proprietà materiali, ma anche a livello di lingua, di capacità espressiva, di libertà di dire. "La lingua è più del sangue" ha detto Franz Rosensweig: e le "lingue tagliate" sono oggi, nel mondo, sempre più numerose. Per certi linguisti forse neanche esageratamente apocalittici, c'è il fondato rischio che entro un secolo lingue nazionali importanti (tra le quali l'italiano) non vengano più parlate, in favore di mega-koiné di matrice yankee o ispanica. Gli scrittori sono la lingua nella quale scrivono, non possono perciò avere solo una funzione di testimonianza, ma anche di opposizione. La lotta contro l'oppressione e l'espropriazione passa anche attraverso la letteratura. I suoi mezzi reali sono deboli, i suoi mezzi simbolici possono essere fortissimi. È su questa linea, credo, che la parola e la scrittura possono contribuire a creare coscienza critica, quindi consapevolezza al tempo stesso estetica e politica. Il sapere e l'immaginazione non possono essere merce, altrimenti si riduce a merce anche l'uomo che non li possiede. La cultura e l'arte non possono essere merce, anche se sono anch'esse manifestazioni del lavoro e dell'intelligenza dell'uomo. È in quest'impasse drammatica e oscura che dobbiamo operare: in favore delle differenze, delle specificità, della ricchezza delle risorse conoscitive e espressive. Perché la terra non muoia, visto che si nutre anche di fantasia e di invenzione. Perché l'uomo, che così malamente la abita e la gestisce, possa tornare a sentirvisi ancora, come forse è stato in remote età dell'oro, a casa sua.
 

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Torna su Massimo Morasso

1) Sono nato e vivo a Genova, città che in seguito all'ultimo G8 è diventato un angolo orribilmente (e internazionalmente) privilegiato di osservazione. Vivo a Genova ma lavoro ad Arenzano, a venti chilometri dal capoluogo, dove dirigo l'unico centro di cultura scientifica in Italia interamente dedicato alle tecnologie ambientali. Una settimana prima del summit, noi del muvita (Museo Vivo delle Tecnologie per l'Ambiente) abbiamo invitato a Arenzano il padre domenicano Frei Betto, acutissimo fra i teologi della liberazione nonché ideatore del Forum di Porto Alegre. Durante il suo intervento, Frei Betto ha parlato del movimento cosiddetto no-global come di "una grande cospirazione per il bene" e, più avanti, come di una vera e propria "movimentazione per la speranza". Non ho motivo di obiettare alle sue parole, nonostante il mio convincimento, zeneize o montaliano in quanto scettico, che a questa cospirazione per il bene si stia intanto contrapponendo, temo con armi ben più potenti, una cospirazione di segno contrario. Non ne farei tanto un problema di quantità: credo che in qualche luogo, diciamo intrapsichicamente per capirci, gli spazi della libertà possano trionfare comunque, nonostante tutto, sulle sragioni del nichilismo planetario. Ma ho più di un dubbio, purtroppo, pensando al ciclo storico in cui siamo coinvolti, sui ritmi di sviluppo delle rispettive tecniche cospirative (per così dire). La speranza, per me, non sta tanto nell'intuizione delle potenzialità utopiche insite in questa nuova coesione delle masse (questa volta, in larga parte, davvero benpensanti, nel senso di pensanti-bene), quanto nell'aver intravisto, in questa coesione - che è forte proprio delle differenze interne che la fondano - la forza germinale di un'idea impossibile eppure, a suo modo, assai concreta: l'idea del bene, sì, di quel bene carbonaro evocato ad Arenzano da Frei Betto, un'idea che inseguono coloro, magari inconsapevolmente, che invece di realizzare un'utopia intendono, piuttosto, finalmente, pacificamente, "utopizzare" la realtà... Penso che il pacifismo "globalizzato" sia una grande chance di redenzione che sorge dalle ceneri stesse della nostra civiltà del tramonto. E credo, anzi: e spero che sia in grado, spazio di un sentimento collettivo montante e inarrestabile, di sottrarre la terra e noi con essa a quello sfacelo apocalittico che la ragione non può che definire destinale. Perché una speranza sussista, oggi, una speranza di vita oltre che di equità e giustizia, occorre lavorare in vista di una riforma che sia, prima di tutto, una riforma interiore. Alla logica degli OGM si tratta non di "contrapporre", bensì, umanisticamente, di "sovrapporre" degli organismi eticamente modificati, cioè noi stessi. Il popolo di Seattle, che, adesso, cresciuto in termini di numero e di riflessione, è il medesimo popolo della mia Genova violentata e attonita, mi pare, però, debba ancora prendere piena coscienza, parlo in termini generali ovviamente, che l'etica tende a coincidere con l'azione politicamente virtuosa, e che il mondo, questo nostro povero mondo in balìa degli arroganti, potrà salvarlo (se ancora, speriàmolo, potrà) soltanto la compassione... Ecco, in questa dialettica "forte" fra com-passione e globocolonizzazione vedo inscritto il plesso cruciale che deciderà, nel tempo, il corso di una civiltà che sarà post-occidentale oppure non sarà.

2) Come molti poeti, non credo nella retorica della persuasione politica. Anche il dibattito sulla poesia civile mi appare sterile, alla fine, intendo: sterile nelle sue ragioni più essenziali. La poesia, quando è poesia, è civile per definizione. E questo perché, semplicemente, è nel gesto poetico autentico (nella stretta di mano di celaniana e non celaniana memoria) che vive, fantasma bellissimo e imprendibile, l'idea della effettiva possibilità di un dialogo, cioè a dire di un'esperienza in qualche modo condivisa del mondo... Chi fa poesia, coscienza in movimento verso l'altro, sa benissimo quant'è violenta, e avida, e, insomma, letteralmente incivile, la tirannia del monologo. E dovrebbe riconoscere, quest'uno tendenzialmente liberato da tutti i suoi preconcetti ideologici, che di un testo, di un invito allo Straniero, non è mai il tema in se stesso a decidere qualità e necessità, ma l'orizzonte di significato che sa spalancare alla mente ricettiva... Comunque, per stringermi più da vicino alla domanda, e all'orrore di ciò che accade, penso che la parola, la scrittura siano gli unici luoghi davvero reali di resistenza alla globocolonizzazione. E lo penso in molti sensi. E torno, allora, parlando di scrittura, alla poesia - che è l'esperienza più radicale della parola. E penso, dunque, per esempio, che in fondo in fondo ogni uomo è un poeta, e che il pensiero poetico è in ciascuno di noi, letterato o bizocone è lo stesso, il medium privilegiato di conversione a un altro pensiero e un'altra misura. E lo penso, come ho già scritto altrove con piglio più astrattivo, perché il pensiero poetico, questo possibile che ha bisogno del gesto della scrittura per oggettivarsi e farsi materia concreta di un discorso comune, comporta "la radicale messa in discussione di quella razionalità tecnolatrica che, misurandosi sui soli criteri della funzionalità e dell'efficienza, non esita a subordinare le esigenze del singolo uomo alle esigenze dell'apparato tecnico". Sono convinto, infatti, da buon idealista (che per me, lo dico per inciso ma a lettere chiarissime, è colui che più degli altri, semiologi compresi, legge i segni per quello che sono) che il pensiero poetico può avere una funzione decisiva nel favorire un'inversione di rotta, nell'indicare con forza veritativa - davvero, in questo senso, rivoluzionaria - come l'unica forma di resistenza praticabile nei confronti della megamacchina e delle sue follìe progressiste, passi per il riconoscimento delle ragioni del "sacro", intendendo per "sacro", laicamente, ma anche olisticamente, quella dimensione che riconosce in tutte le manifestazioni della vita un'intima coerenza complessiva, e che costituisce l'humus vitale per ogni popolo, per ogni luogo, per ogni lingua. Credo, e mi affido a una speranza, che sia nell'esercizio onesto della parola, al di là dell'antica dialettica servo-padrone più o meno post-modernamente reinventata, che potrà, forse, sopravvivere il rispetto di quelle differenze che fondano le condizioni stesse dell'identità culturale e personale. E che sia proprio nella pratica rigorosa, attenta e compassionevole (in senso etimologico) della scrittura che ci sarà dato di imprimere una svolta, e dare il via sempre di nuovo a una sfida capace di aprire una comunicazione fra dimensioni e mondi diversi. Con buona pace dei padroni della terra, e del linguaggio autoreferenziale cui s'appoggiano (come direbbe il poeta, figlio del "Fallo del Capitale"), quel Moloc sordo e cieco che tocca proprio a noi che discutiamo s-terminare.
 

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Torna su Luciano Neri

Dall'inizio dell'età moderna, da quando l'uomo rinascimentale afferma la sua centralità all'interno della creazione, ogni evento apocalittico della storia può essere letto in relazione alla regressione costante del pensiero occidentale e soprattutto all'ascesa prepotente e dominante del capitalismo.
   Dopo la scoperta delle Americhe e degli altri continenti, il percorso umano, aumentate le sue conoscenze geografiche, viene minato infatti da continue guerre per il controllo e lo sfruttamento degli spazi terrestri a danno delle civiltà più deboli e da allora avanza verso un unico obiettivo, nel nome e al ritmo di un capitalismo che nel suo lungo e non ancora interrotto cammino ha piegato alla sua natura la produzione dell'utile, il pensiero di ogni cultura.
   Ma se ieri le lotte per l'egemonia economica hanno significato colonizzazione del terzo mondo, scontro tra monarchie e borghesia, tra borghesia e classe operaia e tra stati e stati, nel Duemila il gioco è destinato ad assumere proporzioni ancora più devastanti, poiché non comprende più singole zone geografiche del mondo ma il mondo stesso nella sua globalità. Con la globalizzazione, termine quantomai ambiguo, il cammino dell'umanità dentro questo processo storico-economico ha raggiunto oggi il massimo della sua degenerazione. Le multinazionali, le nuove protagoniste della storia che finanziano gli stati e le guerre con cui rivitalizzano il proprio cuore economico (Balcani, Guerra del Golfo), cercano di affermare un'unica egemonia economica globale, aumentando fino all'inverosimile la povertà del mondo (il 7% della popolazione mondiale detiene il 75% della ricchezza), i gravi disagi e i disequilibri dei popoli (fame, carestie, malattie, arretratezza economica e sociale, guerre civili, emigrazione), cioè l'altra faccia del globale che spera in un mondo diverso in cui affermare altre prospettive come l'unione dei popoli stessi, la circolazione delle idee e della cultura nel rispetto di ognuno e pensa alla terra come un unico spazio libero senza confini in cui ogni cittadino si possa sentire parte integrante, e non inutile o morente.
   Come non dare quindi ragione a Marx quando affermava che l'unica rivoluzione perenne in grado di perpetuarsi è soltanto quella del Capitale, come non pensare ad un imbarbarimento della coscienza unamana quando in funzione della produttività l'uomo, durante il Novecento, ha brutalizzato ogni risorsa del pianeta, ha piegato la scienza ai suoi fino e non al progresso comune, l'ambiente e l'alimentazione (disastri ecologici, inquinamento delle acque, deforestizzazione e megalopoli, cibi modificati geneticamente), la cultura (le mercificazione dell'arte), svuotando ogni cosa del suo contenuto più sano e più vero.
   Nel suo cammino, tuttavia, il liberismo ha incontrato dure resistenze (il modello statalista dell'Unione Sovietica sgretolandosi con la simbolica Caduta del Muro ma che esiste ancora, pur con molte contraddizioni, nella Cina odierna; in un certo senso il Nazismo e il Fascismo con la violenza di cui sono stati capaci, dal cui contrasto vive l'ombra di sciagure e di drammi di cui la storia ancora oggi sembra incredula - bomba atomica ed olocausto -), e dopo gli anni della Guerra Fredda e l'indebolimento delle classi operaie e delle sinistre europee, due realtà, una violenta e l'altra pacifista, gli si vogliono contrapporre: il fondamentalismo di matrice islamica e i movimenti pacicifisti antiglobalizzazione. Tacendo del primo (anche se le vere cause dell'attentato alle Twin Towers e al Pentagono sono ancora tutte da valutare), i secondi mi sembrano l'unica via possibile per riaffennare i valori essenziali della vita. Figli della coscienza meno autodistruttiva e meno violenta della generazione del G8, ho speranza in questi movimenti (Attac e Greenpace in testa) perché hanno imparato a conoscere nei meccanismi più intimi il nemico di cui si nutre l'uomo con i suoi simboli, perché hanno una visione creativa ed ecologica del mondo, rispettano l'anima delle cose, la spiritualità della vita, annullano le differenze, non hanno leader ma sono motivati da un'unica coscienza, sono curiosi ma non invadenti verso il prossimo, difendono i subalterni cioe i deboli, amano la fatica, la lentezza, della profondità dalla quale ripensare alla realtà. Anche se ancora non pienamente omogenei, perché cresciuti spontaneamente, i movimenti anti-globalizzazione hanno i mezzi umani e culturali per far bene. Ma la loro lotta sarà durissima, perché qualcuno che ora ama l'invisibilità come ultima e vanitosa scoperta del suo potere, cercherà di discreditarli con la forza, di renderli indifferenti agli occhi del mondo.

   Avendo reso nel tempo indifferenti sia lo spazio dell'immaginazione, la poesia, che quello del pensiero, la filosofia, avendo bandito da sé il concetto di oltre per raggiungerlo concretamente con i mezzi della scienza, nella sua ricerca, spesso ossessiva, di nuovi spazi vitali su cui affermare il potere della propria presenza, l'uomo è stato miseramente sconfitto dallo spazio, vale a dire da un ambiente e da un tempo infinitamente più grandi di lui, contro il quale nulla ha più potuto. Cercando la territorializzazione perfetta della propria anima ed uscendone perdente, oggi, ho l'impressione che l'uomo abbia abbandonato del tutto questo tentativo, questa strada. La poesia, che per sua natura è fuori dalla pelle della storia poiché esiste solo dentro la pelle del vuoto e si afferma nell'alterità grazie alla presenza dell'opera, può raggiungere invece un'intesa con il luogo per cui la presenza umana si è sentita nulla e qui rendere uniti gli spazi ed eliminare le disuguaglianze; il suo mediatore, pertanto, il poeta, pur rimanendo nell'angolo del suo sottofondo, deve capire come mettere a disposizione il proprio occhio dentro la società civile del mondo per parlare da questo spazio oscuro che è il solo luogo in cui si sente libero ed essere infine ripensato dalla realtà. Per essere ripensata la sua scrittura, che individuo nello spazio del poema, il poeta deve vivere il suo personale esilio, deve essere nell'esilio degli altri, nell'esilio in cui il tempo lo emargina, perché è qui solo che può trovare la sua forza e vivere nelle comunioni, dimenticando le ragioni del proprio essere. La sua scrittura deve fondare i segni con cui i membri di una società segreta sappiano riconoscersi, deve facilitare gli incontri in questo spazio degli elementi della natura e garantirne l'equilibrio. Il campo d'azione di questi uomini senza terra deve avere la possibilità di essere vasto per aumentare le possibilità del cammino, che consiste nelle molteplici morti e nuove vite a cui il poema viene richiamato. Qui un'unica etica deve essere per tutti valida, un'unica memoria che rinascerà ogni volta dalla morte del poema e lascera vivere soltanto quei segni edificanti, le parole, pronti a recuperare il senso più vero e meno opprimente della storia.
   Una scrittura infine capace di adattarsi all'ambiente del suo vuoto, a non lasciarsi intimidire dalle esuberanze dell'io e delle sue forme chiuse e che sappia, soprattutto, liberarsi da ogni dominio.
 

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1) È una di quelle domande che a scuola si chiamavano 'retoriche', prevede già una risposta perbenista. Certo, l'industria inquina e l'industria è stata inventata in Occidente quasi tre secoli fa (ma l'industria avanzata inquina meno di quella arretrata, una fabbrica russa è più inquinante di una svedese, una fabbrica africana più di una statunitense). Le industrie le vogliono tutti, tranne pochi integralisti religiosi (che in compenso tagliano le mani ai ladri e lapidano le adultere). Mio padre ha smesso di fumare solo quando ha saputo di avere un cancro ai polmoni; ora vive con un polmone solo e non tocca sigarette. Col pianeta andrà a finire nello stesso modo, suppongo. Credo poco a quei gruppi minoritari che insegnano ai loro figli a consumare di meno, si tessono i vestiti in casa, usano la cenere come detersivo eccetera; mi stanno simpatici ma temo che i loro figli, per reazione, vorranno case tutte di plastica e indosseranno esclusivamente fibre acriliche.
    'No global' è come dire 'no ai vulcani' o 'no alle maree'; il pacifismo mi sembra una roba che serve a sentirsi più buoni, se non è una scelta di vita eroica e radicale (non lo è quasi mai). Gandhi diceva "preferisco un popolo di violenti a un popolo di vigliacchi". Se il 'popolo di Seattle', invece, chiede più giustizia nel rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, e soprattutto se riesce a collegarsi con le élites intellettuali del Terzo Mondo, può essere al centro della politica futura.

2) La disuguaglianza è davvero terribile, e va ampliandosi. "La guerra tra ricchi e poveri è finita, e i poveri l'hanno persa", come ha detto un noto economista. Il capitalismo si è dimostrato, finora, il sistema economico più aderente al meccanismo desiderante che ha fatto dell'uomo un animale culturale. I poveri si vergognano di esserlo, invidiano i ricchi e vorrebbero diventare come loro. L'unica alternativa all'imitazione è l'odio. Gli iracheni bruciano le bandiere americane perché i loro bambini muoiono privi di medicine e di cibo nutriente. La durezza delle destre occidentali farà scoppiare rivolte incontrollabili? Giovani kamikaze imbottiti di esplosivo faranno strage di bambini, di consumatori? O il benessere avrà partita vinta, e in ogni punto della terra il numero di quelli che hanno qualcosina da perdere sarà sufficiente per impedire la violenza generalizzata?
   La letteratura (credo che con "parola, scrittura" intendiate letteratura, sennò il discorso dovrebbe prendere un'altra strada), la letteratura è essa stessa un meccanismo desiderante. Una molecola d'acqua non può cambiare il corso del fiume. Ma è, anche, un meccanismo conoscitivo: un modo di conoscenza non sostituibile con altri. Conoscenza simultanea e interna, conoscenza dell'immaginario. Non serve più, o quasi, per conoscere il mondo esterno: meglio il cinema, o la televisione. Detesto gli scrittori che fanno dell'esotismo a buon mercato raccontando i guai del Terzo Mondo; detesto i lettori occidentali che cercano il folklore nei libri degli scrittori del Terzo Mondo che raccontano i propri guai. Noi siamo esperti di benessere, e solo di quello possiamo parlare con cognizione di causa. (Oltre che di sogni e di fantasmi, ovviamente). L'ultima invenzione del capitalismo è stata di fare della vita quotidiana un prodotto commerciabile; si falsifica la vita quotidiana, gli si dà un appeal immaginario e la si vende a coloro stessi che la stanno vivendo (ma non ne sono soddisfatti). Di questo, credo, gli scrittori dovrebbero intendersene - quindi, anche se non se ne rendono conto, sono esperti di una delle strategie fondamentali dell'economia occidentale contemporanea.
   Noi tutti viviamo talmente intrisi di comodità, così istintivamente programmati ad evitare i disagi, che non ce ne accorgiamo neanche più: come i pesci non sanno di trarre ossigeno dall'acqua. Se la letteratura riuscisse a indagare, da dentro, come funziona questo istinto verso la comodità, renderebbe un grosso servizio di consapevolezza alle lotte future, o ai futuri compromessi. È nel benessere la nostra fragilità: chi vive nel benessere, e quindi non crede in Dio, teme la morte. L'ingiustizia nel mondo è talmente enorme, che non potremmo vivere le nostre vite piccolo-borghesi se non fossimo aiutati dall'ipocrisia - dunque è l'ipocrisia che bisogna conoscere, prima di tutto.
   Beati quelli che hanno il coraggio di non accontentarsi della letteratura; quelli che scrivono manifesti, spot, comizi, articoli, saggi. Beati quelli che possono (e forse addirittura devono) dimenticarsi di sé, per agire nel mondo.
 


 
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