Indice L'area di Broca
 
L'Area di Broca
Indice n.73-74
 

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"L'area di Broca", XXVIII, 73-74, 2001

TERRA

 

Angelo Australi

Le torri di avvistamento piantate dal nonno
 

A sette anni guidavo il trattore come un grande. Non è una balla, lo Zio Seneca mi metteva una mano sulla testa per sospingermi verso il trattore e diceva: sali, che andiamo a spandere il concio sulla terra. Il carro ci aspettava pieno di sterco fumante, con il forcone infilzato sul cumulo. Sembrava che dall'aia si propagasse il focolaio di un incendio, mentre gli odori predominanti salivano ancora dalla terra umida del mattino.
   Ogni dieci metri ti fermi ed io scarico un mucchietto di letame.
   Oggi posso intuire perché fosse così disposto a concedermi questo privilegio, lo zio si alzava alle quattro del mattino a fare l'erba nei campi, e nonostante mille promesse non aveva mai trovato il coraggio di contraddire il nonno per portarmi con sé. Il nonno era disposto a insegnarmi tutti i segreti della terra di cui negli anni era entrato in possesso, ma non voleva assolutamente farmi appassionare al mestiere del contadino che diceva essere avaro di soddisfazioni, e spesso ingrato. Io dovevo studiare, fare di tutto per realizzarmi con qualcosa di diverso, di meno faticoso, invece le mie estati in campagna avevano un senso solo quando potevo disintegrare le distanze tra il gioco e la fatica di quell'avarizia della vita nei campi. Sapevo per certo che tutto questo al nonno doveva stargli a cuore perché ogni scusa era buona per lavorare ancora senza chiedere sconti, nonostante il peso degli ottant'anni suonati che si portava addosso.
   Quando mi svegliavo di solito il sole aveva già spazzato via le ultime ombre notturne dalla collina di Villastrada, ancora non picchiava sulla cervica e tutta la gente di casa era sparita a pagare i propri pegni con la terra. Al primo impatto restavo intrappolato in una forte sensazione di malinconia, io e la nonna indaffarata a cucinare qualcosa per pranzo sembravamo le uniche due persone completamente fuori posto, mentre tutti avevano degli interessanti lavori da compiere. Aprivo le persiane con gli occhi ancora intontiti dal buio, e la violenza di tutta quella luce accentuava all'infinito la mia tristezza. Bevevo il latte caldo d'un fiato e mi recavo a scoprire se dietro la stalla il carro che di solito lo zio utilizzava per raccogliere l'erba dai campi non fosse già stato staccato dal trattore. Il risultato di questa scoperta influiva in modo negativo o positivo sulla percezione del tempo nel giorno che era appena iniziato. Così, senza riuscire a cancellare niente, il tempo poteva dilatarsi all'infinito in un pozzo di noia, o restringersi tanto da giungere a sera senza mai porsi il problema di che ora fosse. Era comunque un tocco di magia e fissavo il mucchio d'erba sul carro con lo spirito di un perdente, accettando a malincuore le conseguenze di quella negazione percepivo la vita che iniziava a presentarsi lentamente nel luccichio dei fili d'erba appena bagnati dalla guazza; quel mondo fra non molto sarebbe finito brutalmente nella pancia dei nostri vitelli. Allora non solo la delusione, ma prendeva campo il bisogno di osservare le varie specie di ragni e tutti gli altri tipi di insetti per lo più colorati, che si muovevano impercettibilmente. Fissarli a lungo mi faceva stancare gli occhi, ma sentivo la necessità di farlo. Quando poi la rabbia vinceva sullo spirito di osservazione, iniziavo a scaricare il carro con foga, fino a dimenticare la delusione, il dolore alle mani nel tenere il forcone e la stanchezza. Reagire ai momenti difficili era uno dei segreti del mestiere di contadino che il nonno non mi aveva insegnato, l'ho imparato solo perché quando si è delusi dalla vita si può sempre cercare un carro d'erba da scaricare.
   All'arrivo dello zio Seneca il carro poi era sempre vuoto, lo sentivo fare quell'accenno di sorriso, mentre con la mano sulla testa mi stava guidando verso il trattore. Sali, bestiolina mugellese. Mi diceva.
   Guidare il trattore era un punto di massima realizzazione, come guardare sempre il cielo stellato nelle notti di luna piena e alla fine di un sogno diventare astronauta. Cosa ci può essere di più bello, quando si ha tanta voglia di imparare? Lì sopra mi sentivo tutto e il contrario di tutto, e lo zio giù in basso, anche con il forcone in mano aveva solo il significato di un microbo intento a infastidire la terra. Non che lo disprezzassi, ma ci sentivo un gusto che mi scioglieva tutto, fino a farmi sentire parte del processo biologico che si sarebbe innescato con lo spargimento del concime. Vai, mi diceva quando dovevo inserire la prima. Lì, stop!, comandava appena dopo un breve tratto. Sulla strada asfaltata, la statale che affettava in due il podere del nonno fino al passaggio a livello, invece guidava lui.
   Alla fine di agosto, dopo la battitura, era subito un'altra musica perché lo zio si coricava nel momento stesso in cui mi alzavo. All'inizio credevo che volesse farmi un dispetto, invece andava a letto dopo avere arato tutta la notte con il trattore a cingoli nei campi dove avevamo spanto lo sterco delle bestie. Fatta colazione andavo di corsa nel punto dell'aia da cui era possibile scorgere il pendio della collina arata nella notte, e distinguevo la terra rivoltata di fresco perdersi nei colori della muraglia di rovi che delimitava il bosco. Cominciavo a correre istintivamente come un orfano tra i filari della vigna, fino a raggiungere i campi arati di fresco. Era solo una dimostrazione d'amore dopotutto, una prova necessaria, in attesa di arrivare a capire bene il profondo significato di quella terra piena di rughe come il volto del nonno. E mentre battevo le mani grazie al respiro affannoso causato dalla corsa, quegli odori decisi che sapevano di muffa mi invadevano i polmoni e un nugolo di passerotti e di storni si alzavano in volo impauriti, risparmiando per pochi momenti i lombrichi e gli altri insetti racchiusi nello sterco rivoltato dall'aratro.
   Una mattina avevo trovato il nonno indaffarato a piantare un piccolo cipresso all'inizio del quinto dei tredici filari della vigna, dove anche l'uva ormai cominciava a tingersi di rosso. Essendo alti uguali, io e quel cipresso eravamo come due ragazzi della stessa età, capaci di guardarci negli occhi. A dire il vero mi sembrava un po' spelacchiato e sofferente, ma forse si trattava solo di un'impressione del momento. Il nonno sorrise e disse di averlo chiamato Spartaco, con il mio nome, che anzi ne aveva piantati un po' ovunque per capire se la terra era abbastanza ricca di minerali. Ne accennò un altro ormai grande e grosso che dava ombra sul pozzo dell'orto, al quale aveva messo il nome di mia madre. Nel guardarmi intorno gli altri cipressi isolati in vari punti del podere sembravano torri medioevali costruite in zone nevralgiche per avvistare il nemico. Non so quale nemico il nonno fosse preoccupato di incontrare, ma non c'era mistero in quei cipressi modellati dal vento, se non in rapporto alla terra del nostro podere. Quello è Seneca, tuo zio. Quello laggiù in fondo, lo vedi sì o no? Sì che lo vedo! Lui è Sergio... poi Marina, Vinicio, Oria... Maria e Sauro, Emilio e Ginetta. Il più piccolo, laggiù nella valletta... lo stai vedendo? Sì, nonno. Bene, ha il nome del tuo cuginetto Francesco. A questo che ho appena piantato devi dargli un po' d'acqua prima che si alzi il solleone, altrimenti patirà per tutto il giorno.
   Per la verità avevo una caterva di domande da porgli, ma lui si era allontanato con la schiena curva, lasciando l'impressione di essere un moribondo che ancora oggi mi porto appresso. Osservai tutti i cipressi ai quali lui aveva dato i nostri nomi. Mi sembrava addirittura di riuscire a parlarci a distanza, che insomma fossero vivi, anche se giudicavo assurdo mettermi a chiamarli per nome. Ero felice perché riuscivo a percepire qualcosa di concreto oltre all'ordine astratto che avevano rappresentato le poche volte in cui li avevo osservarti. Sentivo che adesso, nonostante il mio fosse solo un breve periodo estivo, tutta la famiglia si poteva ricondurre ad un legame ombelicale con la terra del podere, quasi come se ne fossimo spuntati fuori anche noi parenti come delle torri capaci di farci guardare lontano, verso l'orizzonte.
   Presi l'acqua, un grande secchio zincato che nello sforzo di trascinarlo quasi non mi faceva scoppiare un'ernia, e cercai di rendere più sopportabile al cipresso con il mio nome la calura che stava per arrivare.
 


 
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