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L'Area di Broca
Indice n.71-72
 

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"L'area di Broca", XXVII, 71-72, 2000

SCRITTURA E (E') POTERE(?)

 

Sul rapporto scrittore-scrittura nel tempo presente ad alto indice di indifferenza

(Intervista a Francesco Muzzioli)
 

Di molta letteratura del nostro tempo vengono denunciate, da più parti, superficialità tematiche e speculative, coniugate alle ragioni del profitto dell'industria culturale. Una ben organizzata strategia del disimpegno, insomma, che attirerebbe gli autori, salvo poche eccezioni, verso obiettivi che escludono la ricerca del reale. Ciò, a tutto vantaggio di un confronto convenzionale che interagisce con lo statuto alienato e omologante della spettacolarità elettronica. Cosa ne pensa?

Mi sembra che il processo di commercializzione della cultura e della letteratura stia arrivando alle estreme conseguenze. La letteratura per il mercato e per il consumo (chiamiamola pure la letteratura-merce) si sta sempre più rapidamente allontanando dalla letteratura come ricerca. La letteratura di consumo deve adattarsi a un sistema editoriale (cui si accoda giocoforza anche la politica dei librai) in cui viene prodotta per restare in vendita pochi mesi, per poi essere sostituita da nuove ondate periodiche di altri analoghi libri "stagionali". Se l'imperativo è eliminare l'immagazzinaggio, quale sorte avranno i classici, i libri per sempre? Verranno soppiantati da scritture effimere, piene di effetti eclatanti e quindi a pronta presa, oppure semplicemente legate ai personaggi e ai temi già promossi dal successo massmediatico. Ne consegue che la letteratura come "arte", ovvero come riflessione culturale e invenzione linguistica, è scacciata ai margini del mercato, se non addirittura al di fuori; intendo dire: relegata alle aule universitarie, se non completamente "invisibile" e introvabile. Che fare? La logica del mercato è schiacciante e alla matematica del commerciante (non posso offrire libri per i quali non c'è domanda) c'è poco da obiettare. Ci vorrebbe un editore così forte da essere in grado di produrre insieme una nuova letteratura e un nuovo pubblico. Questo è chiaramente impossibile. Ma è altrettanto chiaro che la collettività dovrebbe fare qualcosa non solo per non disperdere un patrimonio culturale (quando non ci saranno più persone in grado di leggere i classici, il nostro paese vedrà molto diminuito il suo "capitale simbolico"), ma anche per non perdere la capacità di esercitare un'attività intellettuale creativa e critica. Per l'educazione dei lettori l'unica speranza resta la scuola: ma vediamo in quali condizioni essa versa. E come sia in pericolo, quale ultima enclave di territorio pubblico assediata dal privato.

 

Crede anche lei che la mancanza di dibattito culturale e letterario insieme alla crisi delle riviste "di tendenza" incida sull'impoverimento immaginativo del lettore? E sul suo atteggiamento di ricezione passiva?

È la società letteraria che si sta estinguendo. Nella società letteraria gli autori si riconoscevano come portatori di discorsi culturali e di istanze comuni, e perciò si riunivano in tendenze e in gruppi, davano vita ai progetti a lungo termine delle riviste e così raccoglievano attorno a sé sostenitori e interlocutori, insomma producevano un campo di forza in cui era possibile a tutti situarsi e prendere posizione. Tutto questo è venuto meno: basti pensare che l'ultima tendenza degna di questo nome, nel nostro panorama letterario, è stata la neoavanguardia del Gruppo '63; dopo c'è stato ben poco. E basta vedere come sono tenute, quando sono tenute, le riviste nelle nostre librerie. Né mi pare che la rete di Internet, per il momento, possa supplire al compito del riconoscimento pubblico degli scrittori e delle loro idee. D'altra parte la letteratura-merce vuole avere con il suo fruitore un rapporto di fascino, di seduzione (di adescamento) e perciò vede la critica, il progetto, gli strumenti intellettuali come inutili e intralcianti intermediari. Da saltare. Di conseguenza, la cosiddetta "critica militante" (quella che segue sulle pagine dei quotidiani via via le nuove uscite librarie) non "milita" più da un bel pezzo, ma si è ridotta a mero soffietto pubblicitario. Per forza, dove si accentrano nelle stesse mani la proprietà dei giornali e delle case editrici... Al massimo, possono insorgere finti dibattiti, polemiche atte soltanto a mettere in luce il "personaggio" del polemista, il quale deve allora essere indiscriminato e tracotante (è Sgarbi con i suoi cloni; è la cultura del litigio in diretta). Questo è certamente un "impoverimento" per il lettore, perché in una lettura pensata solo come divertimento o passatempo, egli viene privato di qualsiasi strumento critico che lo aiuti a riflettere, a collegare, a capire quello che vuole fargli (e fargli fare) la scrittura che si trova davanti. I lettori vengono disarmati; e così ridotti possono al massimo, con il loro comportamento ondivago e capriccioso, contribuire a disfare oggi gli idoli che hanno contribuito a innalzare ieri. È il potere del consumatore che impedisce a chiunque di prevedere a priori il best-seller. Ma è un bel misero potere.

 

Ma la poesia, per la particolarità del suo registro linguistico ed espressivo, non si sottrae al convenzionalismo del "mercato della scrittura"? Quali sono, secondo lei, le inclinazioni più interessanti e alternative all'attuale deriva dei linguaggi?

Certo, la poesia si trova in una situazione affatto diversa. Essa non è fagocitata, come la narrativa, dal sistema della letteratura-merce: al contrario, ne è espulsa. Questa espulsione, per altro, fa parte di un fenomeno più vasto, nell'epoca in cui viviamo: la globalizzazione espelle interi popoli, il mondo del lavoro espelle lavoratori in esubero, il sistema politico si rimette sempre più alle decisioni del leader. Il capitale finanziario (virtuale) non tiene in considerazione il corpo, l'umano, la vita stessa. La poesia, dunque, in quanto messa ai margini si trova nella condizione più adatta per raccogliere tutte le istanze delle diverse marginalità. Non a caso, negli ultimi anni, la poesia è molto "viva": malgrado le grandissime difficoltà di pubblicare, e malgrado l'isolamento in cui sono gettati dalla mancanza di sbocchi, ci sono in attività molti poeti interessanti e di buon livello. Nell'ultima ventina d'anni sono emerse, anche al di là degli autori "storici" (Luzi e Zanzotto, da un lato; Sanguineti e Pagliarani dall'altro), personalità poetiche di rilievo, sia nella linea più vicina alla tradizione lirica del Novecento (penso a Viviani, a Magrelli, alla Frabotta), sia nella linea più sperimentale (la generazione di mezzo di Lunetta, Ruffato, Cavallo, Pignotti, Riviello), sia nelle istanze di una ripresa dell'avanguardia antagonista con la cosiddetta "Terza Ondata" (la Cavalera, Delli Santi, Lubrano, Sproccati). E si potrebbero fare ancora molti altri nomi poco noti e sfuggiti alle antologie di maggiore diffusione. Proprio perché fuori dal mercato, la poesia gode oggi di una grandissima libertà (non ha più regole prestabilite: né quelle della tradizione, né quelle del nuovo a tutti i costi). Solo che è una libertà folle. La sparizione della società letteraria, cui accennavo, conduce i poeti a chiudersi in una sorte di titanico confronto individuale con il mondo e con il linguaggio. Facile, allora, la fuga all'indietro, verso il rifugio nella poesia come cosa del passato, anzi come massimo rappresentante del Valore passato (e del Passato come Valore), rivelazione perduta e ingiustamente disattesa nella barbarie presente. Anche se è un atteggiamento che posso comprendere (è forse l'inconscio ideologico che necessariamente tocca chi si accosta alla poesia di questi tempi), non mi pare accettabile come unica soluzione. Bisognerebbe avere la forza di rovesciare la propria dannazione in protesta e in proposta. E la lingua stessa del passato e della tradizione trattarla non con la riverenza del reperto antiquario, ma agitarla senza scrupoli, come un "corpo contundente". Fare della poesia più "ardua" la poesia più "aspra". Rendere "politica" (e quindi condivisa collettivamente) la devianza, la stranezza, l'anarchia. È questa l'ipotesi che mi sforzo, per quanto posso, di promuovere e di praticare.

 

È dunque lecito affermare che una cultura letteraria "militante" ha ancora spazi di intervento. Ma esiste poi un pubblico che sappia apprezzare l''innovazione, la complessità, l''elaborazione analitica e la mordacità dell'impegno?

Si tratta di ricominciare da capo, dal punto in cui siamo, da noi stessi. Certo, ci sono ancora spazi di intervento: a cominciare da questo, in cui stiamo dialogando. Il problema è che non abbiamo più un destinatario garantito. Nulla ci assicura che il nostro atto di enunciazione troverà dei "simili" e dei "fratelli" disposti ad accoglierlo, a difenderlo e a propagarlo. Tuttavia, il problema non si risolve svilendo la comunicazione - come la letteratura di consumo tende a fare - nella ricerca di connivenza con un lettore che si presuppone di incontrare al livello più basso possibile. Al contrario, penso che si debbano cercare le soluzioni di maggiore impatto, perché solo l'urto (la rottura, l'esasperazione radicale, ecc.) può produrre un risveglio. A chi teme lo "scontro" con il pubblico dico che, anzi, andrebbe sempre messo in conto e considerato un giusto segnale di stimolazione e di reattività. Il vero problema, infine, sono i giovani. Finora la dialettica dei movimenti letterari si reggeva sostanzialmente sulle ondate generazionali. Che cosa succede se le nuove generazioni non si fanno più portatrici di progetti alternativi e si mostrano evasive e indifferenti alle sorti del loro stesso futuro? Anche se io credo che questa immagine dei giovani "demotivati" non sia vera (almeno non del tutto) e, insomma, ho ancora fiducia nell'irruzione della vita di altri esseri umani; comunque sia, ammesso e non concesso che abbiamo di fronte giovani che nascono già vecchi (cioè tutti ammaliati e soddisfatti dalle "perline luccicanti" del mercato: di telefonini e videogiochi), questo sarebbe per noi un buon motivo, anzi un dovere, per continuare a rimanere giovani.

(a cura di Gaetano Pampallona)

 


 
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