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L'Area di Broca
Indice n.71-72
 

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"L'area di Broca", XXVII, 71-72, 2000

SCRITTURA E (E') POTERE(?)

 

Gabriella Maleti

Per protesta... per anarchia
 

*

Quello che fu ed è amore-scrittura torna amore
e resta tale.
Altro non ci sarebbe da dire,
poi per un ideale si afferma che scrittura-amore
rende ciò che vita toglie, che si morirà di scrittura,
anche se...
e via di seguito.
Parrebbe allora di svelare ad altri
la compattezza di uno scrittore (come deve essere
lo scrittore?),
e parrebbe - per una volta - di meritare riconoscimento,
invece le calze si sono rotte e
dal freezer non si è tolta a tempo l'anca di pollo.
Così, mentre la stufa gorgoglia il freddo nella
fredda sera, aggirarsi con una sciarpa
rende giustizia al tutto,
perché pare che solo in quel luogo,
ormai sgombro da speranze,
la parola venga meglio.

 

*

Poi la mente si chiude.
Tace.
Gli occhi si fanno piccoli sul foglio,
indecisi s'affastellano.
", si potrebbe chiedere della forma chiusa
che si alza dalla seggiola.
"Sono io: lo scrittore malandato
che si alza e vibra del diletto che
s'immagina lontano, oltre le stelle".
Le giunture s'ingombrano
si fanno assi che attraverso per andare.
Dove va?
Vado a sporgermi un po' alla finestra:
benedetti umili quattro vasi,
quattro erbe che ledono di tenerezza.
E poi benedetto cosa?
Ciò che è fuori di me, vive,
e che scruto in largo e lungo,
sollievo silvano,
assistenziale guida che ancor più
(plenipotenziale) mi affiggi alla mia immagine,
alla pelle che ora s'inchioda - lo sento -
e mai esce dall'involucro rattrappito,
disarmonizzato che è.
"È lei lo scrittore?"
"Sì sì". Di chi è la voce che È la mia.
"Che fa, lei, scrittore?"
"Niente, guardo due erbe grasse".
"E il pensiero? Pensa?"
"Sì, a volte, credo, ma ora...".
"Ah!"
Il viso si delude, scruta lo scrittore.
Allora un po' vergognoso, un po' inutile rientro.
Sono carne e ossa.
Solamente.

 

*

La scrittura è là. Tace.
Su fogli.
Guardo il nero che fuma pestilenziale
da più angoli. Ogni tanto,
con scarpe da montagna per il freddo, vado a
controllare se la mezza gallina bolle.
Vuoto. La testa prilla attorno al suo asse
in un pensiero che non ha porzioni se non
per il resto della storia. Quale? Che si scriva
per indigenza, per indulgenza e ammirazione per
la storia che
ci ha portati fin qui, su un tavolo da cucina dove
qualche briciola di pane farfuglia e secca e
noi con cura similitudinale provvediamo a
spazzare via.
Eppure è lì, dove si mangia, che l'arco
viene teso per opportunità inspiegabili,
per cedevoli e - a tratti - esilaranti partenze di cuore,
mentre la restrizione della parola si allarga su
un nulla composto da varie cose, da occhiuti
ritratti di indigenti, da mobili dozzinali e
fionde medievali guardate con sorpresa.

Sono io - vienmi da chiedere - quel moto che
s'aggira sulla pagina, io, con in testa il
colbacco della Elda per il gelo notturno,
insieme a quella serie di equivoci e rimaneggiamenti
che sempre compaiono quando cessa
l'attenzione al sonoro
e villi di nervetti malimpostati, supponenti
rischiano di decifrare modi, situazioni?
Sono qui per dire?
Cosa, se non apprendo?
Apprendo, se poco o niente si fa apprendimento?

Evitando i facili consensi
stiamo nel chiuso delle nostre audizioni:
vale, non vale, allora, quella tauromachia olfattiva
tra noi e la parola?
Pare di no. Perché la brace, la brossura del descritto,
esistenti se non per l'intercedere della volontà,
del rigore - tra magma e doratura, tra
pèste e péste nostre -
non è congeniale alla superficialità di mondo che
ci vorrebbe indistinguibili.
Quindi sveno la mezza gallina e mangio con le mani.
Per protesta. Per anarchia.
Per lillipuziana vocazione al vorace.

 

*

Con il canino che incide il cannello
della pipa (ormai tutte così le pipe: forate)
scrivo: zzzz zzzz. Il pennino oro
- il lusso che mi sbancò -
fa un rumore di salmo ruvido,
di impercettibile nitrito,
di formica che s'impenna, gratta:
mi aspetto che la Provvida, la
figlia d'una svirgolata vita
(tanto più patita perché apparentemente inutile):
arte dello scrivere
dia requie,
mentre, vediamo, essa non è che fatica,
compromesso con l'ignoto
pur scrivendo cose reputantesi note.

Questo accade ai servitori della parola
che s'accaniscono incupendosi,
s'allarmano sangue e carne
e fanno d'essi strumento così profondo
da toccare le qualsivoglia densità, o cime bige,
le improponibili ai più tenerezze d'un rigore
che sfinisce e mai è premiato,
tanto che l'appartenere all'appartato
è il silenzio che s'ode
che non s'ode
che, ahimé, si propaga.

 

*
per Mariella

Se così fosse: si vedono case parentali e
legna covata attorno,
da ardere, ardendo noi, redatte miele, inseguendo
scrittura, mallo-noce per quelle case,
e migliore tu sia
con quello straordinario grido, mano al petto.
Per me levigare compatto amoroso le mie ossa
appare negli occhi tuoi, precari per insistito bene
(ma intrepidi),
così l'interno sparuto d'una mia conca,
zolla fria, s'ammorba d'una festosa tenera pastura
come acqua: limpida allora letizia
laddove il riso fa oppio, salvezza, redarguisce
il potere, si libera senza meriti né colpe,
superbo savoiardo cristallo che evade,
e rinvieni e chiedi perché, tu,
cristallina come verità,
prima che una non risibile grammatura funesta
si frapponga come avviso.
Morte?

 

*

A volte
il senso di quanto ci umilia
è tutto qui: nello scrivere ciò che
siamo, e sono più o meno tutti,
e come si è vissuto
e certo viviamo, vivono,
senza che qualcosa/qualcuno vigili a
mostrare interesse,
anche solo per dovere,
facendo restare le punte delle nostre dita
che scrivono,
tese,
o abbandonate come denaro falso.

 


 
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