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L'Area di Broca
Indice n.78-79
 

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"L'area di Broca", XXX-XXXI, 78-79, 2003-2004

Cinema / video / TV

 

Paolo Pettinari

Oralità visualità scrittura cultura
 

   Il marzo del 2004 ha offerto notizie ed eventi per varie ragioni desolanti e spaventevoli. Fatti inesplicabili, azioni di tetra e depressa follia, come i massacri di innocenti a Madrid, sacrificati a una malinconica furia esalata dalle fogne di dio. Ma anche fatti bizzarri e futili, come la notizia che decine di milioni di italiani hanno passato la sera del 4 marzo a guardare due brutte trasmissioni televisive: una metà seguendo il Festival di San Remo (trasmissione di canzonette selezionate in base al fatto che non avessero niente a che fare né con la musica né con la poesia), l'altra metà seguendo Il Grande Fratello (una trasmissione dove si poteva vedere un gruppo di persone pagate per starsene dentro una casa a non far niente, se non farsi riprendere da una telecamera per 24 ore). Vorrei partire dall'evento futile e desolante per poi tornare alla tragedia di Madrid, tragedia europea che tocca da vicino anche noi italiani.
   Venti milioni di persone che passano tre ore della loro vita a guardare tv spazzatura (e quella sera, se proprio si voleva guardare la tv, c'era anche qualche alternativa di buon livello) cosa possono opporre alla cultura di morte che esplode dalla spazzatura del fanatismo? Quale argine culturale può innalzare un popolo che si nutre di messaggi senza contenuto, che si osserva in specchi che riflettono gli aspetti più convenzionali della propria esistenza, talmente convenzionali da non avere più senso, rischiando di convincersi, a furia di osservare solo quello, che quel nonsenso sia l'unica vita possibile? Che argomenti può opporre la cultura di San Remo e del Grande Fratello alla cultura di morte degli "assassini di dio" (nel duplice senso, che uccidendo in suo nome uccidono dio stesso)? E' difficile, in effetti, trovare una ragione per questo desolante vuoto culturale che apparentemente caratterizza l'Italia di oggi. E tuttavia vorrei provare a ragionare e a vedere se non sia possibile trovare in certi tratti distintivi profondi della nostra cultura una motivazione per questo atteggiamento.
   Si può partire da un altro dato desolante: noi italiani non leggiamo. Non leggiamo libri, non leggiamo giornali, non leggiamo riviste. L'abitudine alla lettura è limitata ad una minoranza della popolazione: leggere ogni giorno qualche articolo di giornale o qualche pagina di libro sembra un'attività inutile (se non disdicevole) per la gran parte noi, una perdita di tempo che non offre alcun tornaconto sensibile in termini di arricchimento spirituale, godimento ricreativo e men che meno guadagno materiale. Di uno scansafatiche si dice spesso che "passa il suo tempo a leggere il giornale", una persona che legge è un ozioso o uno da prendere poco sul serio. Nella tradizione popolare c'è una storiella istruttiva al proposito. Si racconta di due dottori che vivevano nello stesso paesino: uno era serio, studioso e sempre aggiornato, l'altro invece passava ogni minuto libero all'osteria a bere e giocare a carte. Eppure dal primo non andava mai nessuno, mentre il secondo aveva l'ambulatorio sempre pieno. Un giorno il medico ubriacone si ammalò e i suoi pazienti dovettero rivolgersi all'altro. Così quest'ultimo poté approfittare dell'occasione per chiedere a uno di loro perché mai preferissero il collega. "Perché lei" rispose il paziente "ha ancora bisogno di imparare sui libri e di studiare; l'altro, invece, può starsene tutto il tempo all'osteria perché ha già imparato tutto e ci dà più affidamento" (cfr. C. Lapucci, La bibbia dei poveri, Mondadori, Milano, 1985, p.154). Dunque chi legge e studia lo fa perché ignorante e inesperto del mondo; chi non apre un libro evidentemente non ha bisogno di conoscere altro: sa già quanto è necessario sapere.
   Ma la storiellina esemplare ci mostra anche un altro aspetto della cultura tradizionale italiana, ci fa intuire in maniera indiretta che il nostro modo di comunicare si è sempre basato (ed evidentemente si basa tuttora) sulla trasmissione orale delle informazioni. E' cultura della parola detta, non della parola scritta; cultura del dire, dell'ascoltare e del parlare, non del comporre e dello scrivere. Per conseguenza è una cultura dove leggere ha un rilievo marginale, recita un ruolo inessenziale. Una cultura orientata all'oralità, che ha spesso privilegiato forme artistiche o comunicative che in qualche modo ne fossero la conseguenza: la poesia in rima, il teatro, la canzone; relegando altri generi, impensabili al di fuori della forma scritta, in una posizione subalterna: il romanzo, ma anche le altre tipologie testuali che ricorrono alla prosa, come il saggio o la cronaca o il commento.
   Accanto a una corposa tradizione orale, mutevole, instabile, destinata all'oblio se non fissata nelle forme più durevoli della scrittura, notiamo però anche una straordinaria, ricchissima tradizione figurativa. Sono più di 2500 anni che in Italia si comunicano, si fissano e si tramandano informazioni per mezzo di immagini. Dalle tombe etrusche alle case pompeiane alle chiese cattoliche ai palazzi patrizi l'Italia conserva un patrimonio figurativo imponente e, per certi versi, imbarazzante. Non possiamo più prescindere da questo profluvio di quadri ed affreschi, ritratti e rappresentazioni fantastiche e raffigurazioni realistiche e traduzioni di miti e astrazioni concettose. Ne siamo stati invasi e condizionati al punto da eleggere l'immagine, la figurazione come codice principale di comunicazione sociale. Immediatamente al di sotto della parola detta, ma ben al di sopra della parola scritta.
   Altri popoli ed altre culture hanno avuto ed hanno un'importante tradizione figurativa. Per restare in Europa basti pensare alla Germania o all'Olanda. Ma in questi paesi, con la riforma protestante nel XV e XVI secolo, si è poi affermata la cultura del "libro". La Bibbia, tradotta nelle varie lingue locali, divenne a un certo punto il solo mezzo per dialogare con Dio e tentare di decifrarne, senza intermediazioni sacerdotali, le volontà e i progetti. La lettura divenne così azione quotidiana e abituale, e il buon cristiano doveva anche essere capace di leggere, perché altrimenti non avrebbe potuto ricevere la parola di Dio con la stessa intensità e chiarezza della comunicazione diretta e personale. In Italia la cultura del "libro", la lettura individuale della Bibbia non si è mai affermata. Per scelta delle gerarchie cattoliche si è impedito di tradurla in una lingua più comprensibile del latino e si è continuato a divulgarne il contenuto attraverso la mediazione del clero e la creatività degli artisti che, per mezzo di affreschi, quadri, pale d'altare, trittici, polittici e retabli, hanno trasformato i libri sacri in una icastica "bibbia dei poveri". Non tutto il male viene per nuocere, si potrebbe dire, ché ci è stato risparmiato il fanatismo puritano di certi gruppi riformati, quel fanatismo iconoclastico che ha fatto non pochi danni nelle fiandre e ha cancellato dalla faccia della terra la pittura inglese fino a tutto il '600.
   La propensione visiva e figurativa della cultura italiana non è stata dunque bilanciata in alcun modo da un'analoga propensione alla lettura dei libri sacri. Anzi, fino alla fine dell'800 la politica culturale delle gerarchie cattoliche non è mai stata per nulla favorevole a incentivare l'alfabetizzazione e la libera circolazione dei libri. Se poi si aggiunge la frammentazione linguistica del territorio italiano, dove ogni regione e ogni città hanno una propria lingua o dialetto, si può capire come la comunicazione scritta abbia sempre trovato ostacoli che ne hanno pregiudicato la buona salute.
   Questo orientamento visivo e orale della nostra cultura, da un lato ha impedito che si sviluppasse una letteratura nazionale ampiamente condivisa in cui potersi riconoscere; dall'altro ha favorito tutte le attività comunicative o artistiche non basate sulla parola scritta, ma sul parlare e sul guardare. Prima di inebetirsi davanti alle tv gli italiani hanno affollato per più di un secolo i teatri dell'opera; finita quella stagione, si sono trasferiti in massa per circa un trentennio nelle sale cinematografiche; oggi a milioni ingrassano davanti ai tubi catodici. La spinta a un tale comportamento probabilmente è il frutto di un medesimo atteggiamento antropologico che si è indirizzato, epoca dopo epoca, verso differenti mezzi e codici di espressione. Ma sempre privilegiando la comunicazione orale e visiva.
   L'indifferenza nei confronti della lettura non si può ricondurre soltanto a fattori negativi quali la pigrizia mentale o una pervicace attitudine all'ignoranza. E' più ragionevole pensare che sia essa stessa, paradossalmente, un dato culturale, una sorta di caratteristica etnologica al pari della dieta mediterranea, del senso di ospitalità, del familismo. Sostenere questo permette di capire meglio sia perché certi generi artistici e comunicativi abbiano avuto, anche nel recente passato, più successo di altri; sia il perché di certe mode o manie della società italiana contemporanea. Ad esempio, la cultura del '900 in Italia è stata segnata dal cinema. Di fronte a pochi autori letterari che hanno fatto scuola e hanno influenzato la produzione artistica e il dibattito delle idee anche fuori dai confini del nostro paese, il cinema italiano, nel trentennio che va dal 1945 al 1975, ha prodotto autori e opere che sono tuttora importanti e apprezzabili a livello mondiale. I film di Rossellini, De Sica, Fellini, Antonioni, Scola e innumerevoli altri, testimoniano di una forza artistica o anche solo comunicativa che la letteratura non è riuscita ad avere. Evidentemente i nostri artisti riescono meglio in quelle opere dove la comunicazione visiva è essenziale.
   Altro fenomeno esemplare è costituito dalla diversa modalità in cui, nell'ultimo ventennio, si sono affermati nella società italiana due strumenti tecnologici come il telefonino e il computer. Il telefonino, pur consentendo di scrivere rudimentali brevissimi messaggi, è essenzialmente un mezzo per la comunicazione orale, si può usare in ogni luogo e in ogni momento per comunicazioni importanti ma anche inessenziali o futili, magari solo per fare sentire il suono della propria voce, o solo per riaffermare attraverso il rumore del corpo dei vincoli familiari o di amicizia o più genericamente sociali. E' stato proprio questo aspetto, probabilmente, a decretarne lo straordinario successo nel nostro paese. Un successo ben più vasto e radicato di quello ottenuto dall'altro marchingegno tecnologico, il computer che, pur essendo basato sulla visualità, fa tuttavia prevalente ricorso (ancora) al codice scritto.
   La comunicazione orale e visiva favorisce il contatto fisico e la creazione di comunità reali: gente che si vede, si parla, si tocca, comunica con il corpo, i gesti, il modo di abbigliarsi. La comunicazione scritta non ha bisogno del contatto fisico tra le persone e favorisce la creazione di comunità virtuali, dove si parla senza emettere suono e si ascolta con gli occhi e con la memoria, dove è necessario riflettere prima di replicare e riflettere ancora per elaborare, costruire una replica altrettanto silenziosa. Dunque le società orientate verso la comunicazione orale e visiva sono forse più aperte al contatto, allo scambio o al contrasto immediato con gli altri. Le società orientate verso la comunicazione scritta sono forse più titubanti negli approcci interpersonali, proprio perché c'è maggiore abitudine alla riflessione. Si tratta però di differenze antropologiche culturali che in sé non giustificano alcun giudizio di valore. Una cultura non è superiore ad un'altra perché ha Goethe invece di Michelangelo, o perché ha Shakespeare invece di Caravaggio o Pasternak invece di Fellini o Dante invece di Mozart. Una cultura ha forza quando offre risposte condivisibili ai bisogni "spirituali" della sua epoca, a prescindere dal mezzo o dal codice comunicativo utilizzati per proporre queste risposte. Ha forza quando esprime contenuti, spiegazioni, modelli che aiutano a vivere e a vivere meglio, esorcizzando o razionalizzando la paura della morte, della dissoluzione fisica e spirituale.
   Tornando ai massacri di Madrid: può dunque una cultura basata sulla parola detta e sulle immagini opporsi a una cultura basata sulla parola scritta e fissata eternamente da dio? (Da un dio triste e cattivo, aggiungerei, specchio deforme e deformante di coloro che lo hanno creato. Specchio fedele e gelido dell'altro dio, quello invocato da chi ha scatenato quest'ultima inesplicabile, detestabile guerra in Iraq.) Ogni tipo di cultura può opporsi alla morte e può farlo con successo. Il fatto in sé che in Italia la gente preferisca guardare la televisione piuttosto che leggere libri significa soltanto che la nostra tradizione culturale è orientata in un certo modo. E se tale orientamento ha dato frutti importanti nel passato, non c'è ragione di pensare che non possa più darne nel presente e nel futuro. Prescindendo dalla conservazione e trasformazione del sapere, in particolare delle conoscenze scientifiche e tecniche, che possono sopravvivere e tramandarsi soltanto per mezzo della parola scritta, la cultura di una società, l'intero sistema degli atteggiamenti condivisi di una comunità, ciò che pensa e come si comporta la gente, abitudini, usi e costumi possono rivelarsi ed affermarsi anche senza il ricorso alla lingua scritta. Il problema non è nel mezzo (tv o libro, video o scrittura), il problema è nei contenuti. Giotto, Michelangelo, Rossellini comunicano tramite il mezzo visivo contenuti forti, basilari: i nostri atteggiamenti verso la vita e la morte, la nostra idea di speranza e di orrore, di amore, coraggio, sofferenza e felicità. Il linguaggio audio-visivo, anzi, ha talvolta una forza e una densità che la parola scritta non riesce ad avere, e può essere un potente strumento di conoscenza, importante per esorcizzare il nonsenso del mondo, purché sia veicolo di contenuti, idee, valori molteplici e discordi. Purtroppo, e qui torniamo alla domanda che ci siamo posti all'inizio, immaginare che si possa vincere il terrore (e la tristezza necrofila che lo nutre) opponendogli San Remo, Grande Fratello, film biblici e agiografici, quiz, pubblicità, partite di calcio, propaganda del governo, è una grottesca suicida bizzarria.
 


 
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