Indice L'area di Broca
 
L'Area di Broca
Indice n.75
 

Mediateca Italiana
 
Mediateca Italiana

 

 

"L'area di Broca", XXIX, 75, 2002

AMICIZIA / COOPERAZIONE

 

Maria Pia Moschini

Sette settimi
(analisi di un'utopia possibile)

 

   I/7
   Seduto sui talloni, la testa fra le mani, mi guarda come si guarda un animale, una cosa. Non mi vede, non cataloga. È un uovo pensante, raccolto. Io una disarmonica figura che va.
   Sento il peso del suo deserto, il vuoti di sabbie.
   Cerca l'acqua, con un movimento lento del capo. Sfilo una bottiglia dalla mia borsa, gliela appoggio accanto, sul marciapiede. Si alza, emerge: palmizio, cedro, sicomoro... ora è una pianta semovente. Mi aiuta a sollevare fagotti di cibo, li sistema con cura nel portabagagli. Senza una parola. Poi mi sfiora il braccio in un gesto leggero, armonioso. Mi riconosce. La riconoscenza è reciproca. Siamo chi siamo.
 

   2/7
   Cammina sul bordo della strada, assente, lontana. È bionda, leggerissima. Forse vecchia ma adolescente nella levità del passo. La riconosco, le vado incontro, le sorrido con enfasi patriarcale. È come stringere un raggio di luce sottile, vibrante. Io so chi è, lei mi guarda attonita, tenta un piccolo gesto del capo. Poi anche in me si fa strada un brivido di disagio. Un abbaglio? Uno scambio di persona? Non so... lei chiede il mio nome, mi rivela il suo. Perfette sconosciute. Pure, su quel marciapiede, a quell'ora ci siamo incontrate. Le nostre pene segrete sono uscite dal paesaggio interno, si sono dileguate. "In un'altra vita?" Forse. O solo così per un caso strano, per un bisogno segreto l'uno dell'altro, in quel preciso momento. Solo in quel momento.
 

   3/7
   La chiamo dalla finestra. Ho sette anni. Lei ha il giardino, io una terrazza sui tetti. Questo la rende superiore e molto, molto più potente.
   Soffre di una strana cosa detta "piccolo male".
   Si manifesta con uno sguardo mistico come quello delle sante e un tremolio della mano: su, su, verso l'alto.
   Sua madre teme che cada e la sorveglia. Poi si affaccia alla finestra del sottotetto e mi fa un cenno con la testa come per dire: scendi... Io capisco. Scendo le scale al trotto, entro nella tintoria dove la madre e la zia lavorano e l'abbraccio. Lei mi dice: "Tu sei l'attrice e io il regista". Obbedisco. Faccio le cose più strane. Spesso devo morire ma con gli occhi aperti perché non la posso perdere di vista. lei ogni tanto parte per il suo misterioso viaggio da cui rientra sognante, con un'idea nuova.
   Mi tiene a distanza. Sono la sua schiava. La madre mi offre un "dito d'apostolo" gonfio di crema. Mi dice: "Ritorna...", mentre mi accompagna al portoncino.
   Non mi sono divertita. Sono stanca, ma appena arrivo in casa la chiamo. Lei sale su una sedia e gesticola: "Sono il regista e tu l'attrice...". "Sì", le grido, "domani torno!".
   Domani.
 

   4/7
   Salgo gli ultimi gradini che mi portano allo studio. Lui, il maestro, è là che dipinge. Mazzi di fiori secchi si sbriciolano in pulviscolo, ad ogni vibrazione raggiungono un tappeto di polvere e scintille. Fuori un merlo recita cantando il suo credo. Ripete un suono acuto, in i, come un fischio di vento.
   È quasi sera. Mi tolgo la giacca, mi siedo sulla seggiolina da balia, bassa e scomoda, mi atteggio.
   Il maestro mi guarda e s'illumina.
   "Quando arrivi tu è come quando finiva la scuola e si partiva per la villeggiatura. Tu sei come Iris, la cugina...".
   Dipinge guardandomi senza vedere, come seguendo una sua idea interna. Non sta ritraendo me ma Iris. Io sono lì per amicizia. Emano calore, respiro, sono viva. Lui ha compiuto ottantotto anni, il numero dell'infinito.
   Tutto si spenge in un indaco fresco, di lavanderia. Siamo amici. Lo sento per una percezione dell'essere che ci rende sinceri e complementari. Non si addicono parole a un'amicizia così.
   Resta il merlo che canta il suo oratorio, il microscopico petalo che s'inabissa. Amici. Anche dopo...
 

   5/7
   La sento. Muove passi corti e veloci, da capretta.
   Il suo appartamento, al secondo piano, l'ho appena intravisto. Denso, compresso, sui generis. So tutto di lei, anche i suoi pensieri. Ogni rumore, ogni suono mi dicono in quale stanza si trovi, quale sia il suo umore. Andiamo a letto alla stessa ora per una strana sincronicità legata alla lettura. Sento lo scatto del lume che si accende, il tonfo del libro seguito dal clamore secco e indefinibile degli occhiali nell'impeto del sonno. Lei di me percepisce solo i suoni che salgono, la mia voce, il ticchettio della Lettera 22, la musica che ripete all'infinito lo stesso motivo.
   Quando ci incontriamo per le scale, ci guardiamo con aria complice, senza parole. Una sola volta, all'ombra di un nocciolo che si allarga a ombrello nel giardino condominiale, ci siamo scambiate una promessa. Quella di assisterci fino alla morte, qualsiasi ombra calasse sul nostro corpo o sulla nostra mente. Un'amicizia costruita ora per ora, fatta di rituali domestici arcaici e consolatori. Il lungo lenzuolo azzurro che batte sul vetro e mi parla, il tralcio del rampicante che sale su, fino al terrazzo di lei e fiorisce, a mia insaputa. Esistiamo. Non siamo sole. L'amicizia è anche presenza silenziosa e certa. Un esserci che si apposta.
 

   6/7
   Ci guardiamo, intorno al tavolo tondo. Sempre lo stesso, oltre i traslochi, il mutare degli eventi.
   Il vento ci trasporta come foglie di stagioni mensili che convogliano umori e parole scritte, remiganti.
   Tre donne e tre uomini, oltre l'amicizia. Il nostro esserci non è condiziato dai rituali del vivere. Ognuno di noi arriva dal nulla, anzi da un suo tutto che a volte aleggia in dimensioni di eco. Lavoriamo insieme. Ascoltiamo voci di altri, con un'attenzione che è mente e a volte cuore, se per cuore s'intende quel sentimento di condivisione che ti fa cogliere il pensiero nascosto, la genesi di un percorso. la redazione. È qui che ognuno è così profondamente se stesso da specchiarsi nello sguardo degli altri. Un cerchio magico, dove l'alitare di Lapo, il cane assoluto, cerca la scintilla di affetto che ci accomuna.
   Per un pomeriggio al mese le nostre voci si confondono, le nostre mani pensano fluttuanti e silenziose.
   Siamo insieme. Si può stare insieme, oltre il tempo. Anche in silenzio...
 

   7/7
   È così. Quando mi scruto allo specchio che conserva le ombre della notte, non mi riconosco. Non sono miei quegli occhi semichiusi di cui s'indovina appena il colore. Non è mio quel naso che crolla insieme alla bocca verso una liquefazione di cera. La mano che si alza per ravviare i capelli è una foglia di platano, autunnale. Non ho voglia di ripulire questa estranea che mi perseguita: esigente e malandata, lontana.
   Poi dalle spalle sale un fremito, un'onda che ritorna.
   Guardo fissa l'estranea che mi espropria e come nelle allucinazioni ricompone un suo essere, un sosia antecedente, che mi appartiene totalmente. il mio io di un tempo. Mi sono fermata a quella improbabile stazione della vita che sta fra i 40 e i 50 anni. Non nella prima giovinezza, ma in una maturità attenta e solare. Ognuno porta in sé un'idea di sé, che sceglie in mezzo a mille fotogrammi e che corrisponde al suo momento di assoluta appartenenza. L'estranea è ora al di fuori. Le grido: "Via dalla mia casa...".
   Mi sono amica, ora, totalmente. Mi pettino con cura, accomodo lo sguardo dietro gli occhiali, mi sostengo. Guardo con affetto il mio corpo volumetrico e gli urlo da dentro: "Sei mio, mi appartieni... mi riconosco". So chi sono.
   E mi voglio bene per quel miracolo oscuro e frammentario che è la percezione del sé. L'inesplicabile sincerità della vita.
 


 
Inizio