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L'Area di Broca
Indice n.73-74
 

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"L'area di Broca", XXVIII, 73-74, 2001

TERRA

 

Alessandro Franci

I poeti e i bambini
 

All'alba del settantesimo giorno, (venerdì 12 ottobre 1492) sulla coffa della Santa Maria, Rodrigo de Triana scorge nei vapori che fondono mare e cielo, un insolito colore instabile sull'orizzonte che, invece, ormai dopo la dura e inconcludente navigazione, lui ha impresso in mente come una linea ferma. Probabilmente si stropiccia gli occhi incredulo e poi scruta ancora: una lingua pallida si frappone tra cielo e mare; è terra: un isolotto (saprà più tardi) che la gente del posto chiama Guajahani. Ma per la scolta e la ciurma delle tre imbarcazioni rappresenta la fine di un incubo, la certezza che la loro sorte, fino a quel momento nelle mani di Dio e nelle bizzarre convinzioni di un italiano, comincia a delinearsi meno oscura; ed ora, sia quel che sia, l'importante è scendere dal legno logoro dei ponti, e mettere finalmente piede a terra.
   Circa cinquecento anni più tardi (domenica 20 luglio 1969) un altro uomo, Neil Armstrong, si trova a vivere una circostanza per certi aspetti simile: per lui ed i suoi colleghi, non era tanto il contatto con un suolo che in quel caso era la Luna, ma piuttosto rimettere piede sulla Terra, una volta conclusa la missione.
   Ci si può immaginare, facendo le dovute distinzioni, che la vista della Terra, da prospettive diverse, per la ciurma delle caravelle e l'equipaggio della navicella spaziale, abbia ingenerato gli stessi sentimenti rassicuranti. Consideriamo pure il fatto che se per i cosmonauti si trattava di un ritorno, per i marinai si può dire fosse un arrivo. Però in ogni caso, la terra, o la Terra, ha rappresentato la salvezza, la vita.
   Comunque nulla era lasciato al caso, infatti, sia Colombo sia Armstrong avevano calcolato tutto, o quasi; innegabilmente l'organizzazione che permise la nota impresa dell'Apollo 11, non aveva nulla a che fare con quella di Colombo e compagnia. Sarebbe stato impossibile, infatti, per i tre cosmonauti statunitensi, partire dalla Terra e arrivare su un altro pianeta, anziché sulla Luna. Errore nel quale, per parallelismo, si potrebbe dire incapparono le caravelle, dal momento che la destinazione, com'è noto, era un'altra.
   Divagando però potremmo pensare che il viaggio di Colombo e quello dell'Apollo 11, siano legati sottilmente, visto che il susseguirsi delle esplorazioni dopo il 1492, portò alla scoperta del così detto Nuovo Mondo, al suo consolidamento demografico, politico, sociale, fino alla completa identità di stati, popoli, culture; un insieme di forze che ha consentito dopo cinquecento anni appunto, la spedizione dell'uomo sulla Luna. Per estensione si potrebbe persino azzardare un'ipotesi, cioè che grazie a Cristoforo Colombo, Armstrong è arrivato sulla Luna e poi è rientrato sulla Terra. Quindi, dilatando a dismisura la divagazione, che se Colombo fosse giunto davvero in Asia come era sua convinzione, oppure fosse naufragato, o avesse deciso di dedicarsi ad altro nella vita, l'Apollo 11 non sarebbe esistito, oppure sulla Luna ci sarebbero arrivate per prime le popolazioni autoctone del Guajahani per conto loro, ammesso che a tali popolazioni interessasse la Luna; forse era loro sufficiente rimanere dov'erano sempre state, invece di abbandonare la propria terra, almeno quelle che sopravvissero alle visite spagnole e portoghesi. Ma queste sono, appunto, divagazioni.
   L'idea che Colombo aveva della Terra, come si sa, non corrispondeva affatto a quella visibile sulle carte nautiche dell'epoca, e non era un'idea condivisa da molti; diciamo addirittura che per i più, quella di Colombo era un'idea fantasiosa. Un sogno.
   Ma un sogno, si può dire, ad occhi aperti, poiché coincide con l'altro (ad occhi spalancati) dell'espansione europea e soprattutto portoghese e spagnola. Flotte che salpano dai porti iberici e lusitani affrontando lunghi viaggi verso l'ignoto, anche per oltrepassare e segnare i nuovi confini della cristianità. Un sogno finanziato, quello di Colombo, tant'è che sia per lui, sia per i marinai non sono da trascurare cospicue motivazioni economiche.
   Dice S. Jerzy Lec: "I poeti sono come i bambini: quando siedono ad una scrivania, non toccano terra con i piedi".
   Come dire che soltanto l'ingenuità di una mente ancora incontaminata come quella di un bambino, oppure come quella di chi tende a ritornare tale da adulto (talvolta riuscendoci), può arrivare ad alzare finalmente i piedi da terra, senza che ciò sia in nessun modo legittimato da qualcosa d'altro, cioè che abbia come unico scopo solo quello di alzarsi da terra. Ma se l'unico scopo è quello di alzarsi da terra, viene considerato un tipico comportamento negativo, in taluni casi addirittura poco salutare; infatti, i bambini il più delle volte vengono corretti e ricondotti alla mera realtà terrena, i poeti lo stesso. Invece, stare con i piedi ben piantati in terra, secondo il pensiero corrente (e oggi maggiormente attuale) è positivo; fermo restando che vengono portati ad esempio molto più di frequente poeti e bambini anziché cosmonauti, trasvolatori o viaggiatori. Si cita, ostentandone approfondita conoscenza, Rimbaud o Pascoli; si riferiscono, con malcelata fierezza, ad interlocutori disattenti, le gesta del proprio figlio, mentre invece è raro ricordare Charles Augustus Lindbergh, Giovanni Caboto o Edwin Aldrin.
   Avevo chiesto agli amici redattori di scusare il ritardo con cui avrei consegnato il mio contributo per questo numero, poi c'è stato l'11 settembre. Non volevo più scrivere una riga, non per il rispetto dei poveri morti, né per il disprezzo verso lo zelo vendicativo di certi vivi, ma perché qualsiasi argomento − chiunque lo affrontasse − mi sembrava fuori luogo dopo quella data. Riconsiderando poi le grandi imprese, del genere di quelle accennate all'inizio, ho creduto che questo tempo sia davvero figlio dell'eccesso di azioni grandiose ma che non hanno mai avuto la forza di alzare (veramente) i piedi da terra, restando, nonostante tutto, miseramente aderenti ai puri interessi, per così dire terreni.
   In questi giorni si parla senza pudore di guerra, di attacchi chimici e batteriologici; quindi non è un paradosso immaginare, almeno perché lo capisca chi altro non capirebbe, che è davvero il caso di stare con i piedi per terra. Ci consola sperare di rivedere presto i salti dei bambini afgani, americani, palestinesi, ebrei o di qualsiasi altra parte della Terra; e di sentire ancora la voce dei poeti.
 


 
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