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L'Area di Broca
Indice n.71-72
 

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"L'area di Broca", XXVII, 71-72, 2000

SCRITTURA E (E') POTERE(?)

 

Questionario

1) Scrittura e potere (istituzionale, economico, accademico, massmediatico, editorial-commerciale, e così via): in che relazione si trovano? Che cosa può la scrittura (la cultura?) contro il potere che sempre (anche quando non pare) vorrebbe assimilarla, asservirla, zittirla? È uno "stato di guerra" o che cos'altro?

2) Scrittura è anche potere, però. E che vuol dire, in questo caso, "potere"? Di che "altro" potere si tratta? Proviamo a discuterne.
 

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Risposte di:
Nadia Cavalera, Pino Corbo, Mario Dentone, Rosaria Lo Russo, Giorgio Luzzi, Dante Maffia, Massimo Mori, Maria Pia Quintavalla, Enrica Salvaneschi, Mirko Servetti, Ida Travi.
 

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Torna su Nadia Cavalera

Scrittura solitaria scritta schietta contro chi pote pagante pagato rod'è pedalino che si volt'e rivolta sping'affondo molest'in palude stolt'in facondia manigold'in vign'ignude luride mide crud'è berett'al cappio strett'edonistica roulette solipsistic'harahiri contra se clacque déblacle crack sfatt guarda me frappé raté ai socialsogni brulé squagliat'in coalescenz'impotentia deracinées in calunni'ammollo broccati steccati stoccati sentimi credimi seguim'' necessaire briller galileiano l'engagement einsteiniano l'emballement da guitto parsifal gentleman tonnè
 

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Torna su Pino Corbo

1) Spesso tra scrittura e potere c'è complicità, connivenza, in quanto l'una ha bisogno dell'altro: la scrittura nel potere trova la consacrazione, l'ufficializzazione, che producono la normalizzazione e l'adeguamento; d'altro canto, il potere deve necessariamente far sua la scrittura, farla diventare strumento di consenso, sottometterla alle proprie strategie di governo e di controllo. Non do per scontato che la scrittura (la cultura) faccia tutto il possibile per scrollarsi di dosso la presenza ingombrante e fagocitante del potere, il veicolo più efficace per l'affermazione e il plauso; in molti casi si tratta di una guerra apparente, di un conflitto mascherato, che nasconde accordi subdoli, scambi e profitti reciproci. Certo, ci sono scrittori non implicati, a volte semplicemente perché non ne hanno avuto l'occasione, sono fuori dal giro e non fanno testo; allora, non c'è nulla da perdere e si può pure andare controcorrente, denunciando, permettendosi il lusso di non allinearsi e di non salire sul carro dei vincitori. Naturalmente, credo che solo ponendosi oppositivamente al sistema si possa fare cultura e che la scrittura abbia un senso, una ragione operativa e una credibilità morale, altrimenti non ha alcuna giusticazione di esistere, nessuna attendibilità e valenza positiva.

2) Ecco, dunque, perché il potere teme la scrittura (e la cultura): ne paventa le infinite possibilità di intervento sulle coscienze e sul reale, la sottile capacità di liberare l'uomo dagli schemi e dalle convenzioni, affrancandolo da idoli e preconcetti; è questo il suo "potere", di cui l'altro, quello costituito, vuole appropriarsi per irregimentarlo e devitalizzarlo. Si scontrano, per così dire, due concezioni del potere: quello del regime economico-politico che è al governo e quello dell'intelligenza critica, creativa. Mi pare che la distanza sia abissale e vana, in quanto poco realizzabile, ogni possibilità di conciliazione, altrimenti siamo all'inganno, all'impostura, alla correità ipocrita, amorale.
 

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Torna su Mario Dentone

1) Che lo scrittore possa essere un potente, e che dunque... possa!... adoperare il suo potere, credo sia... ancora... possibile per certi pochissimi eletti, ma non in quanto grandi scrittori, artisti nel senso nobile del termine, emissari e comunicatori di cultura, bensì perché perfettamente inseriti, appunto, nel potere. Quale potere? si dirà: ogni potere che conta, che permette con una telefonata di aprire porte e cassetti, di farsi togliere anche una stupida multa o di farsi invitare dal Costanzo o dal Vespa di turno, quel potere che faccia inserire la figlia o il genero o il nipote in un ruolo privilegiato in RAI o in MEDIASET o anche in una piccola televisione regionale... (E poi ci si stupisca per l'omonimia!) Quel potere che, una volta conseguito, e da furbi adoperato (ecco il solo pregio individuale: esserselo conservato, una volta conseguito), permetta, qualunque ignobile e scalcinata pagina si scriva, di essere editi dalle grandi case editrici, che ormai di cultura se ne fregano perché le decisioni sul pubblicabile o meno vengono prese in definitiva dai direttori commerciali o, come s'usa dire, di marketing (provare per credere) e di essere immessi sul mercato in maniera eclatante, strombazzando magliette o preservativi, gadget e capolavori, premi e inviti televisivi. E il potere di quello scrittore, ecco, come una piovra accresce i suoi tentacoli, le sue ventose si afferrano a tutto, stritolano ogni valore personale e umano, ogni sentimento, e addio letteratura, addio anche tempo per leggere, scrivere, stracciare, maledire, sudare, vegliare, aspettare... La letteratura diventa soltanto un mestiere qualunque, uno strumento di... potere, e basta.
   Si dirà, allora, ma per arrivare a essere, anche da scrittori, potenti, ci sarà stato pure un inizio! Certamente! Scrivete un romanzo, ovviamente centellinando le giuste dosi di giallo, di schifo, di violenza, di sentimento, a seconda dei vostri gusti, però non proponetelo agli editori, sia per evitare inutili attese di scontati rifiuti con letterine di splendide arrampicate su specchi di motivi pseudo letterari, sia per non bruciarvi le occasioni, e dedicate invece il vostro tempo per qualche stagione a prostituirvi, sì, partecipate a convegni e stringete mani, appiccicatevi a qualunque fantasma che conti nel consesso, non mollatelo, per quanto possa sbuffare o mandarvi a quel paese, fategli gli auguri natalizi, partecipate a ogni sua conferenza, recensite i suoi libri, telefonategli ogni dieci giorni, senza pudori o paure. Alla fine troverete il pesce grosso il quale, pur di togliervi dai... se li ha... vi fa pubblicare o comunque vi spalanca qualche porta... Oppure costruitevi il personaggio, createvi una maschera, uno scandalo, una perversione, qualunque cosa pur di diventare animale da "audience" (la nuova dea assoluta del nostro tempo), e non importa se non avrete più avuto tempo per leggere o scrivere altro, basta e avanza la prima stupidaggine. I futuri romanzi saranno sempre capolavori... Attenzione, però, finché saprete "funzionare"! Altro elemento da dizionario che conta oggi! Perché quando non "funzionate" più, per vendite, audience, premi, amicizie, presenza. diventate scrittori da rottamazione, e dunque da dimenticatoio.
   Ovviamente ci sono le eccezioni, che gli editori tirano sempre fuori per purificarsi e parlare di livore, di delusione rabbiosa, e altro, ma anche se ci sono (vere!) sono talmente rare da... insospettire esse stesse.

2) Cesare Pavese nell'immediato dopoguerra fu aspramente criticato dal Partito Comunista, nelle persone dei critici letterari di partito, fedeli al più rigoroso zdanovismo, perché lui, iscritto al Partito, e dunque scrittore di Partito (lui che si iscrisse per quieto vivere, dichiarando quella tessera "il mio secondo atto contro natura" - il primo era stato, nel '32, l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista per accedere ai concorsi di insegnamento) aveva scritto romanzi come La casa in collina, i tre racconti de La bella estate, Il compagno, con l'accusa di scrittore da mondo borghese, antioperaio e non abbastanza antifascista, perché non partigiano, perché... E Pavese si difese, attaccando proprio il POTERE del partito, rivendicando l'autonomia del vero scrittore, ovvero la assoluta libertà di scrivere... e che di politica non gliene era mai fregato nulla. (Anche se per questi 50 anni dal suicidio ci è stato sempre propinato il Pavese intellettuale di sinistra, lajoliano fedele, ispirato, entusiasta). Basti invece vedere le lettere del marzo '50 a Rino dal Sasso, uno di quei critici, con Muscetta e Lombardo Radice in primis, "la letteratura deve scoprire nuove verità umane" concluse in quelle lettere, "non nuove istituzioni" come voleva il Partito.
   E Pirandello? Negli anni '30 in voluto esilio fra Germania e Francia, ammirato, cercato, glorificato, rappresentato in tutti i teatri, e snobbato e avversato in Italia dal potere teatrale, dagli agenti e dalla società degli Autori? Pirandello che confidava a Marta Abba che il Nobel alla Deledda era voluto da Mussolini nel segno del regime, perché facendolo assegnare a lui o a D'Annunzio avrebbe fatto torto all'altro... Anche se poi, nel '34, dovettero darlo a lui, troppo famoso nel mondo per essere ignorato anche in Italia?
   E Proust? Che fuori da ogni potere dovette pubblicare il primo volume della Recherche a proprie spese dopo i rifiuti di tutti gli editori, Gallimard compreso, per firma di Gide, forse invidioso, forse troppo potente, che subito si pentì, però, di fronte al grande successo di pubblico ed economico?
   Nulla è cambiato, dunque. Il potere è anche della cultura, rimane della cultura, rovina la cultura, e rovina l'uomo, che dovrebbe essere l'essenza della letteratura, nella sua semplicità di emozioni, di espressioni, di realtà di vivere... In un mondo di non valori i valori non hanno più spazio.
   Credo di avere risposto anche al secondo quesito, e purtroppo non riesco a sperare che serva...
 

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Torna su Rosaria Lo Russo

1) La relazione fra la scrittura e i poteri menzionati è necessaria se lo scrittore non vuole rimanere ancorato ad un rassicurante, quanto irrilevante culturalmente, dilettantismo. Anche la piccola editoria 'indipendente' deve fare i conti con il potere, deve confrontarsi con la sua protervia e le sue inspiegabili esigenze, per evitare il rischio di autoconfinarsi nell'autoreferenzialità che è, appunto, il connotato più 'antidemocratico' (e quindi, a sua volta, protervo) del dilettantismo, il quale finge l'innocenza di una neutralità che nessuna scrittura può vantare. Che le relazioni fra scrittura e poteri siano, o fingano di essere, conflittuali, in assenza di regimi totalitari, e da dopo i moti rivoluzionari ottocenteschi, è opinione comune. Però Ariosto andava d'accordo con il suo Prence, pur rimanendo uno spirito libero, dunque potremmo sperare in un futuro migliore, che ribalti il luogo comune. Perché è inevitabile che la scrittura, e la cultura in genere, abbiano a che fare con il potere; insomma l'errore più grave è sperare nel mantenimento ad libitum di una condizione anarchico-adolescenziale dello scrittore: pregiudizio presuntuoso e/o scorciatoia esistenziale consentita dal permanente stato di lussuosa disoccupazione del generalmente benestante economicamente scrittore medio italiano attuale. Bisogna fare i conti con il Potere perché esso è la Cultura dominante. L'ironia, la satira e la parodia mi sembrano da sempre i mezzi più diretti per castigare i costumi corrotti, e mi sembrano validi ed operativi a tutt'oggi. Se non che oggi tutte le Immagini, sia appartenenti alla Cultura Vera e Buona, sia prodotte dal Potere Minaccioso e Corrotto, scorrono troppo rapidamente, amalgamandosi in una pappa omogeneizzata che il Fruitore Distratto, è indotto a scostare da sé il piatto, schifato, già sazio. Che dire, allora? Anzi, che fare? L'ultima risposta occidentale a tale stato agonico della Cultura e, paradossalmente, del Potere Cattivo (che usa gli stessi mezzi di comunicazione e soprattutto gli stessi stilemi retorici dell'informazione 'estetica'), è stato il fenomeno letterario e cinematografico del pulp. Spento il clamore di questo tentativo potente di sovversione delle immagini omologate, il panorama si sta contraendo di nuovo, sta nuovamente implodendo in una plaga postatomica popolata di cloni angosciati, almeno all'occhio di chi, come me, ancora non riesce ad intravedere come sarà la letteratura post-tardonovecentesca, cosa verrà dopo il post-postmoderno. Come sarà la Sovversione del 2000? Guerre stellari e non più paramentri neanche postumani? Cosa c'è dopo il post-umano? Di certo sappiamo solo che, se la Cultura Vera e Buona conserva ancora delle scorte di Onestà e Ingenuità, un impulso autentico alla ricerca, il Potere Cattivo Costituito mantiene inalterata la sua secolare capacità persuasiva di occultare, inibire e infine mandare al macero, umiliare, sminuire, minorare e ritardare il Nuovo, che retrocede per mancanza di finanziamenti. Ai tempi di Ariosto il Mecenate aveva buon gusto, perciò pagava profumatamente chi sapeva Fare.

2) Del potere di stupire (è del poeta il fin la meraviglia). Ogni libro è - se è un vero libro, con un costrutto retorico forte - un "libro della sovversione", come direbbe Jabès. Ogni libro è una parodia (nel senso etimologico di "canto di nuovo") del mondo reale: una mimesi rovesciata, uno specchio, un rewind del Tempo Attuale. Penso soprattutto alla fiction, ma non solo. Ogni scrittura crea un mondo = ogni scrittura ri-crea il mondo, sovvertendolo. Questo è (in questo c'è) il suo piccolo podere. Ma certo sarebbe bello poter coniare il verbo poetére!
 

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Torna su Giorgio Luzzi

1) La configurazione del potere in questa parte della storia del mondo è tale che il rischio di dirne genericamente è di per sé alto. Il potere è da un lato troppo grande e dall'altro invisibile. La dittatura passa attraverso la gioia e la libertà: la gioia fisico-animale di un oggi perenne, la libertà di essere tutti quanti asserviti a una stessa griffe. I pigiami di Auschwitz hanno calzato scarpe galleggianti e calcato caschi da motomostri. Se non si è in grado di definire il potere (poche centinaia di manovratori nel mondo dell'immateriale finanziario? un branco di narcomafiosi?), si definisca almeno il disagio. Già, perché il nemico sono gli altri, i simili a noi, i dissimili ai manovratori; ma il nemico deve essere visibile in qualche modo, deve essere un materiale ostile, non un semplice rivale (visibile sull'altra riva, potenziale dialogante). Ce la prendiamo con i rivali e ignoriamo i nemici. Mai come ora la dittatura mondiale dei pochi è stata aspra e sfuggente: sia gloria al popolo di Seattle dunque. Ma noi che scriviamo: che fare? Gli effetti ci sono, indiretti e giganteschi: ridurci a intrattenitori, piccoli germogli di profitti, servi messi al lavoro non per difendere ideologicamente il potere, ma semplicemente per fruttare qualche spicciolo, non importa che si dica bene o male del potere stesso. Questo non dà nessun fastidio. Dà fastidio usare una complessità di scrittura non vendibile presso le folle educate a misura della persuasione del ventre, ma non in quanto complessità che smonta i meccanismi dell'abuso. Nessuno, via via, ha più memoria dello scandalo etico dell'abuso: altrimenti non saremmo qui a temere un ritorno di Berlusconi. Dunque noi (parlo dei poeti in particolare) non siamo più visti con sospetto. C'è bisogno anzi di noi per fare di un calciatore un "poeta", di un pasticcere un altro "poeta" e così via.

2) Scrivere in versi il senso di tutto questo è difficilissimo. Vengono in mente certi nomi e ci si sgomenta. Allora quei nomi avevano un'udienza (penso a Shakespeare, prima ancora che a Brecht), potevano essere in qualche modo temuti, proprio perché i rivali parlavano in fondo la stessa lingua. Ora non più: la caduta di quelle masse codificabili che erano le ideologie ha distrutto la possibilità stessa che il messaggio sia convalidabile, che sia quello e non un altro. L'informazione alluvionale crea tautologie spaventose... Nostro potere (?), poeti, è la lentezza, la memoria elefantina e pedante, le forme di godimento segreto che stanno dentro il processo formativo del testo. Sono valori non aziendalizzabili, ma purtroppo appartengono alla fase precedente la nostra possibilità di apparire. Senza il gioco dell'apparire siamo spacciati. Senza la scelta dello sparire nella lentezza, memoria, godimento segreto, siamo infelici; chi ritiene di non esserlo forse non si intende a fondo del mestiere. Per questo credo che un certo potere di risoggettivizzazione, di restituzione di forme segrete di amorosità, di fuocherelli di speranza (anche in senso blochiano), che tutto ciò - l'occhio lungo, una benefica presunzione di acrofilia - sia quell'altro al quale fa riferimento il questionario. È, per intanto, un piccolo contropotere antropologico e risiede, 'semplicemente', nella riappropriazione di tutto l'integrale percorso del lavoro umano.
 

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Torna su Dante Maffia

1) Il potere è portato a fagocitare tutto e tutti; se può, non lascia strascichi, stritola, inghiotte, dà somiglianza di sé a ogni cosa. Il potere è cieco, subdolo, sordo, ripugnante nella sua avidità, cinico, beffardo, indifferente, scettico. Basterebbe dare uno sguardo alla iconografia che lo ha rappresentato fin dall'antichità per rendersi conto che si tratta del mostro più orripilante mai esistito.
   Ma c'è stata l'arte, la scrittura che sempre lo hanno infastidito e messo in crisi, perfino piegato, nonostante le sopraffazioni e gli sforzi messi in atto per distruggere qualsiasi voce discordante. Bisognerebbe rileggere gli scritti di Diderot per rinfrescarci la memoria.
   Per secoli, comunque, nel bene e nel male, è stato possibile il dialogo tra intellettuali e potere, tra gli uomini di scrittura, in genere, e chi gestiva le leve del comando a qualsiasi livello. Ma qualcosa di molto strano è accaduto nell'ultimo decennio: il potere non teme più gli intellettuali e gli artisti e non cerca nemmeno, come un tempo, di asservirli, li ha relegati in un angolo asfittico, resi cicale che cantano in piena estate.
   Naturalmente non bisogna fare confusione con quegli artisti e quegli scrittori che hanno, nella loro povertà culturale e morale, la vocazione al servilismo e hanno adoperato la penna, come si diceva un tempo, in funzione della scalata sociale. Parlo di chi ha in sé l'indignazione etica e vede chiaro lo svolgersi degli eventi. Per non andare troppo lontano faccio riferimento a un personaggio complesso come Curzio Malaparte che all'interno del potere sapeva tenere accesa un'uscita di sicurezza, sempre, o parlo di Elio Vittorini che quando fu stretto dalle ragioni di partito s'oppose ribadendo che non era disposto a suonare il piffero.
   Dove sono le voci, adesso, che s'alzano contro gli abusi e chiariscono al mondo la portata di una violenta messa in atto per cancellare le identità? La clonazione non è concetto odierno, risale a molto tempo addietro (almeno nel desiderio dei dittatori): il potere ha tentato in ogni modo di omologare e uniformare (un editto di Carlo V sulla lingua castigliana obbligatoria ci illumina, ma non mancano altri esempi nel mondo egiziano, babilonese, greco o romano, per non citare l'obbrobrio del nazionalsocialismo pangermanico).
   La dissidenza non è più tollerata; si fa finta di dissentire e avviene uno scambio dei ruoli per la gestione politica, economica, accademica, editoriale.
   Anche in politica un tempo (La Pira, De Gasperi, Togliatti, Nenni furono fautori di una sorta di cogestione per evitare abusi) si cercava la mediazione attraverso i partiti. Ora è languore in ogni direzione col rischio che sempre più bottegai salgano in cattedra (e si badi che i bottegai sono più pericolosi dei qualunquisti). È evidente, in circostanze simili, che sia il potere ad esprimere e produrre la scrittura secondo proprie misure e progetti. Chi non è in sintonia non trova spazio per aprire bocca. In due articoli memorabili Giuliano Manacorda e Giacinto Spagnoletti anni addietro affermarono che il potere editoriale stabiliva perfino come doveva essere la poesia e chi dovevano essere i poeti. Ed è una verità che si è dilatata: storie letterarie, antologie, riviste a grande tiratura non concedono cittadinanza a chi mostra di avere le carte in regola se prima non si è piegato al gioco della camarille. "Sei bravo, buon pro ti faccia, ma pubblica con chi ti pare se non stai alle regole del nostro gioco. tanto i lettori li 'prepariamo' noi e tutto andrà per il verso giusto". Senonché i lettori non sono tutti caproni e privi di cultura e di senso estetico e si rifugiano nei classici, rendendo il mercato della poesia contemporanea pressoché inesistente. È notorio che i dattiloscritti, i computerscritti, inviati alle case editrici non vengono più letti. Costano troppo i redattori e dunque la scelta di pubblicare nuovi autori avviene su altre basi che quelle della qualità e forza della scrittura. Si pubblicano gli scritti degli amici, del funzionario, dei compari dell'apparato politico, finanziario, giornalistico.
   È un momentaccio, oggi. La scrittura non può nulla contro il potere, a meno di non cullarsi nell'idea che vede il seme della scrittura vera, importante e non omologata come una mina vagante che prima o poi deflagrerà.
   È vero che i poeti, gli scrittori, bisogna leggerli senza pregiudizi politici o ideologici, ma mette scomodi assistere alla spartizione di Hamsun, di Sciolokov, di Pound, di Borges, di Junker, di Céline da destra e da sinistra, con punte di vera e propria demagogia.
   In che relazione, perciò, si trovano scrittura e potere? Purtroppo in strettissima relazione, sono un'unica cosa, una sola voce, un'unica emanazione e ciò è perlomeno orrendo, perché i dibattiti o sono spariti o si sono arresi alla tautologia, all'ovvietà benpensante e scrittori che abbiamo ritenuti per lungo tempo coscienza viva di una realtà che non doveva arrendersi alla lunga mano delle ombre becere del comando (faccio tre nomi come Enzo Siciliano, Pier Vincenzo Mengaldo, Pietro Citati) sono diventati prestigiatori della scrittura, elzeviristi di tipo ermetico che vagano su reperti archeologici nascondendosi all'impatto per ragioni che naturalmente ci sfuggono.

2) Certo che la scrittura è anche potere. Il potere senza parole, senza concetti, senza pensiero sarebbe spento e privo di qualsiasi direzione. Il potere della scrittura è inconfutabile e chi lo esercita sa che perfino le cose si strutturano e si sostanziano per mezzo della scrittura.
   La scrittura detta i comportamenti, le leggi e quindi il modo d'essere. Ma se i poeti resteranno nel loro involucro (o li faranno restare), sarà difficile, poi, uscire dal pantano del risaputo. Siamo dentro una crisi profonda e finché la politica, come sta accadendo negli ultimi dieci anni in Italia, resterà ordinaria amministrazione, non vedremo mutare o rinnovarsi niente. Un tempo - lo dico senza nostalgia, ma con dolore - la scrittura sapeva trovare la strada scomoda del no e portava verso nuovi orizzonti umani, estetici, ma soprattutto sociali ed anche economici.
 

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Torna su Massimo Mori

1) Se 'potere' è facoltà di fare, poter fare, allora è poiein, e si identifica con la libertà di esprimersi di scrivere, nel caso proposto. Colui che è in grado di liberamente scrivere e ne ha gli strumenti culturali è in sé potente. Tuttavia questa potenzialità non viene esercitata come possibilità di coercire, di sopraffare attraverso la scrittura, anzi in nome della libertà di espressione sopra richiamata, evita di esprimersi come esercizio del Potere. Tantomeno deve essere ad esso asservita. La facoltà di scrivere, il poiein, è un corpo estraneo nelle strutture del Potere; se questo lo limita è guerra e la forza dello scrivere farà sentire il proprio valore, se invece ne favorisce la libertà, che è espressione critica e confronto, ogni sinergia è possibile.
   Le differenziazioni non sono così nette, per cui frequentemente chi ha facoltà di scrivere si assoggetta alle lusinghe del Potere, del successo, del mercato. Peraltro nelle istituzioni culturali, accademiche, editoriali ecc., il Potere si insinua per esercitare il controllo sulla produzione e distribuzione della cultura.
   Ho già scritto altrove che 'non vi è politica senza poetica', cioè che la scelta di una visione del mondo e quindi di una sua descrizione, determina il contrasto o una sinergia tra le due; ma è certo che il Potere ha la necessità di una sua estetica, di una credibilità culturale, di essere espresso e rappresentato anche dal potere della scrittura. Questo è magnifico solo quando gli scrittori ne difendono la libertà.

2) Quale la natura del potere della scrittura? Questo potere è espresso dal saper esprimere, descrivere, interpretare, immaginare, non necessariamente in quest'ordine ed in differenti proporzioni. Esso è legato alla qualità estetica, letteraria, del testo stesso come elemento centrale su cui si innestano, in modo divaricante (ma che nella scrittura possono essere difformemente commiste), la capacità critico-interpretativa e la facoltà creativo-immaginativa. Peraltro senza un'estetica letteraria nessuna letteratura è possibile. Personalmente ritengo quest'estetica attualmente logora e superata e da ciò uno scarso attuale potere dell'esercizio della scrittura. Da cui anche uno scarso interesse del Potere a ricercarne l'alleanza ed un suo orientamento verso altri media espressivi e comunicazionali.
 

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Torna su Maria Pia Quintavalla

Per scrittura e potere, io ho inteso arte, poesia e letteratura come sinonimi di scrittura, e dirò subito che non hanno geneticamente nessuna relazione: non ce l'hanno di nascita, nella loro motivazione ad esistere. Ce l'hanno invece di convivenza.
   Se penso invece al bisogno di gambe per camminare, di comunicare di sé, del proprio esistere nel mondo, dei libri ad esempio, ed al fatto semplice di "condividere" il proprio tempo con l'oggettivo esserci, storicizzatosi oggi come più tecnologico e di mercato oramai, dei poteri editoriali, dei mezzi di comunicazione etc. sarebbe davvero meglio porsela la questione di tale rapporto: ma sorge anche una premessa preliminare da parte degli scrittori sul tipo di relazione che si vorrebbe avere con il potere (non affidata soltanto ad una brutalità d'estrinsecazione dello stesso). È un rapporto di maggiore plauso, sostegno, a volte osannamento, da nuovi eroi romantici come tipi sociali che si vorrebbe, o non piuttosto una relazione diversa a partire da sé e dalla sfida di quell'irriducibile differenza costituita dalla scrittura stessa, che è poi quella da cui parliamo e che, sola, ci autorizza a parlare.
   Che non vuole e non può emanciparsi da sé, per un irrealistico rapporto alla pari, e che non è vincente in questa società, non tutelata dalla schiacciante superiorità dei mezzi (non di anima) dell'industria stessa, che non si dimentica mai e qui entriamo nel vivo della seconda domanda di quel potere occulto, sottile e pervasivo che è il segreto potere della poesia (e della prosa, quando grande), quel poiein o fare, o pensiero in azione e nella forma linguistica di poesia, in grado spesso se non di cambiare il mondo, di migliorarne di molto la percezione sensibile e intellettiva che ne abbiamo e forse anche qualcosa del nostro rapporto con la realtà, della capacità di viverla oltre l'immediato visibile. Qui ed ora.
   D'altra parte come nascondere l'imponderabilità e imponenza delle trasformazioni in atto in questo inizio di secolo, dentro ai cui incroci vive anche il posto della cultura e della letteratura e cioè:

  • della comunicazione sociale, segnatissima da un megasviluppo (realizzato "orvellianamente" ormai come vero grande fratello) dell'industria dell'informazione che pare escludere drasticamente tutti quei messaggi che non celino (dietro a sé) la concretezza del soggetto che parla e dei suoi condizionamenti;
  • del sistema educativo pubblico che sta ridiscutendo tutta l'enciclopedia dei saperi trasmessa alle generazioni future, e dunque, il ruolo occupato dalla letteratura;
  • della tendenza minoritaria e di insignificanza sociale infine della letteratura stessa occultata nei vari orti di riviste, collane, editoria, ma non per questo meno progressiva e senza ritorno.
   Allora, il "che fare" si pone d'obbligo ed è il momento più difficile, perché sembra vicino al leggere la sfera di cristallo. Il presente vissuto dalla letteratura in Italia e dalla lingua e cultura italiana, non potrebbe essere più critico, oggi, di vero e proprio assedio interno ed esterno. Quello che posso auspicare e che ho sempre tradotto, costantemente, nei momenti dei miei seminari ed insegnamento è il momento in cui accosto giovani e non, donne e non, a toccare con mano la durevole e sostanziosa "verità" della letteratura e della poesia stessa.
   Se ogni scrittore difendesse oltre alla propria ascesa, sempre più a rischio, anche quel significato fraternamente intrinseco alla lingua comune scritta oltre che parlata per salvarla, forse salverebbe sé un po' meglio e la coscienza di un tempo, ogni tempo che ci tocca vivere oltre che interpretare.
 

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Torna su Enrica Salvaneschi

La mia non è una risposta alle due domande poderose, ma una scarna proposta, una postilla in parte narcisistica, in parte stravagante e dolorante.
   In filigrana specifica di alcuni miei scritti sta il problema del rapporto fra potere e poetare, che mi sembra con buona approssimazione corrispondere a quello fra potere e scrittura qui sollecitato - né sarei aliena dall'adottare, parafrasando, l'antonimia allitterante fra potere e potenza che anima un testo rigoroso di Camillo Pennati ("Cadenza", in Sotteso blu, Torino, Einaudi 1983, p. 105). Spero che l'autore non me ne voglia.
   Mi limito ad alcuni scabri suggerimenti, quali - ormai proverbiali - poche faville cui fiamme grandi potrebbero secondare.
   Nel capo II del mio Catalogo e Metamorfosi (Campanotto Ed., Udine 1996, pp. 15-20), intitolato "L'assurdo e l'assoluto", proponevo di interpretare cosí il notissimo frammento di Protagora (qui ne dò una scolasticissima parafrasi): "L'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto è, di quelle che non sono in quanto non è". Tale proposta non ha accolto reazione alcuna - né consensi né dissensi. Forse, ridiscutendone nell'àmbito della presente alternativa, si potrebbe addivenire a qualche orchestrazione non banale.
   Un altro caso archetipo è quello del Tasso, poeta e personaggio poetico. Propongo di rivisitare in tal senso il poemetto del Byron, The Lament of Tasso (1817); sarei pronta temerariamente ad addossarmi il peso e l'onore di un commento adeguato. E intanto, per quanto riguarda il Tasso poeta, mi permetto di rimandare al saggio su "Gerusalemme Liberata". Utopia per un regista, Pisa, ETS 1996. Attendo sempre quel regista, e lo avverto, se mai ascolti: il mio non è un saggio su poetare e potere come impegno esplicito, ma di questo problema, che fu squisitamente tassiano, è innervato il tentativo di interpretazione semantica.
   Chiudo con una frase stupenda di Marco Aurelio (Xl 8): homothamneîn mén, mè homodogmateîn dé; grosso modo: "essere dello stesso cespuglio, non della stessa opinione"; adattandola al nostro argomento, la riformulerei cosí: "radici solidali, diversi pensieri". Il rapporto fra potere e poetare non ha troppo spesso invertito questa scabra opposizione, negando l'identica dignità di ogni essere umano e forzando a scelte coatte? In altre parole, e assai piú povere perché volte alle esigenze di un programma di studio, leggo questa frase umilmente profetica (l'anno è il 1968!) di un comparatista americano, Harry Levin: What shall it profit our students to gain Swahili and have no Latin? Pienamente sottoscrivo e preciso, nel duemillesimo anno: ben venga qualsiasi swahili, come meta ambita, come allargamento di prospettive culturali, come foraggio del nostro poetare, solo e purché non si smarrisca il tesoro ereditato - che purtroppo si va dilapidando, quale conseguenza di un brutto potere, per nulla ascoso. Pensiamoci, perché l'umano cespuglio possa ancora diramarsi oltre ogni dogmatismo di chierici vestiti o travestiti, "i quali qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto" (Giacomo Leopardi 1836).
 

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Torna su Mirko Servetti

1) Scrittura (cultura?) e potere: a volte (spessissimo) incontro ferale, esiziale interazione, contestualizzazione che della 'cultura' sottolinea 1' "inutilità"; attraverso il dominio del lugubre e fatica senza concetto, burocrazia asburgica, consorterie insondabili, modelli, moduli, codici e partite, fatture e ricevute, domande, attese, lotterie, progetti, assessori, funzionari, ministri, professori, operatori, strategie editoriali, comunicazione e impresa, produrre e consumare, mercato e libri, mercato e film, mercato e musica, intellettuali e giovani, giovani intellettuali, artisti giovani, scrittori giovani, giovani e giovani... sfilano senza posa né pudore, volgari di promiscuità (falsamente) democratica, incapacità di rigore disciplina sapere, figuriamoci di volo stupore e oblio... e c'è una stanchezza che sale alla gola, ir- rimediabile come la morte, una stanchezza che prosciuga il desiderio oppure lo piega a misura immonda e mondana e lo chiude due volte nel sacco, con la vacuità psicolabile di un consultorio, la saccente protervia dei normalizzatori. Ma c'è anche uno spreco vitale, fuori dalla logica esangue del calcolo e dalla partita doppia della sussistenza, sovranamente o idiotamente estraneo alla realpolitik di professione cultura spettacolo... immagine bianca inafferrabile di corpi di luce di vino di sole, insonnia del desiderio senza domani, ogni secondo l'ultimo, ogni secondo del cuore un'esplosione di sangue, pulsazione e respiro come di danza di terra, lingua che brucia scava e seduce, lingua che canta e balbetta, senza nulla da 'comunicare', mai, a nessuno.

2) Scrittura è (anche) potere: lasciamola tuttavia "indecisa", sfumata alla vista e accecante ad un tempo, come il sole, come colei che gioca, che crea, che resiste (alla morte, alla stupidità, al volgare del presente, al dolore).
   Scrittura: innanzitutto, bambina e irresponsabile. Non le si chieda ragione del suo fare e disfare; non si cerchi di interpretarla fissandola nella gabbia rassicurante di una definizione o di un genere. Si provi, piuttosto, a farne esperienza, a stupirsi d'essere, d'essere ancora...
   (La) Scrittura lotta: dal verbo "luctari", che appartiene al dominio semantico dell'atletica: niente agonismo belluino, fanatico e capita-lista, quindi, ma sovrano divertissement dei corpi. La vera lotta è "coitus interruptus-ininterruptus", rivoluzione permanente, altalena instancabile di "plaisir" tantrico e di "jouissance" sconsiderata: car la mollesse, ici, n'est que l'écume de la force, une crête qui tremble au vent, come sorrideva anarchico e rigoroso nella sua danza di parole Antonin Artaud.
   (La) Scrittura "conquista"? "Conquerere", ovvero cercare, raccogliere, requisire. Conquista indica l'atto e il possesso. Tutto ciò non ci appartiene. Cum-quarere: cercare insieme, chiedere, toccare il fondo amabile e raccolto dove possono convivere conversazione e ascolto.
   Fare "conquista", sedurre...
 

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Torna su Ida Travi

Una lingua che mantiene in sé quegli elementi che le consentono un rapporto dinamico e veritiero con il mondo è una lingua "vera e propria". Alcuni di questi elementi sorgono dall'interno della persona che si esprime in parole e sono fortemente ancorati alle falde d'un linguaggio sorgivo, immenso nel suo costituirsi: sono quegli elementi di senso e di suono che portano a un primissimo riconoscimento del mondo attraverso i nomi prima che le ragioni e le leggi di quello stesso mondo traslochino senso e suono nel più conveniente significato.
   Una lingua così, una lingua per cui il significato non è poi così 'conveniente', è una lingua poetica. È una lingua che si impara prima di conoscere l'alfabeto: la si coglie sotto il fluire sonoro con cui la voce ritmica, misteriosa, e insignificante della madre, portava al neo-nato il massimo delle informazioni fondamentali sul mondo. Questo concetto che collega lingua materna e poesia è espresso molto chiaramente ne La rivoluzione del linguaggio poetico di Julia Kristeva, nel primo capitolo. In quelle pagine, pubblicate negli anni '70 dall'editore Marsilio, Kristeva reinterpreta il Timeo di Platone e al suo concetto di 'chôra'. In quel celebre dialogo Platone definisce la "chôra" in modi diversi: è spazio, relazione mobile, nutrice, ricettacolo, materia formativa di tutto.
   Kristeva chiama dunque 'chôra semiotica' quell'area di esperienza che lega alla madre nella fase neo-natale, prima del riconoscimento di sé. "È indifferente al linguaggio, enigmatico, femminile, questo spazio sottostante allo scritto è ritmico, scatenato, irriducibile a un'intellegibile traduzione verbale." È dunque un'esperienza che viene prima del linguaggio, ma fortemente ancorata al suono della voce. È pre-simbolica e pre-sintattica. È quel che sta sotto anche alla poesia scritta. La sua natura è una natura ambigua e chi nasce la coglie 'quasi in sogno' o attraverso quello che Platone chiama "un ragionamento bastardo". Viene prima del linguaggio, sì, ma al cuore del linguaggio direttamente introduce.
   Cosa c'entra questo col potere? Trovo l'espressione "vera e propria" attribuita alla lingua in L'ordine simbolico della madre (1) di Luisa Muraro, là dove scrive "Le lingue dette naturali o materne, le lingue vere e proprie si differenziano da quelle artificiali perché sono in vivente rapporto di scambio con la realtà: non le sono mai indifferenti. Cambiano con la realtà che cambia e al cambiamento partecipano, come dire, liberamente..." .
   Dunque, aggiungo io, hanno più probabilità di avvicinarsi man mano allo stato delle cose, e dunque più probabilità di dire il vero, anche là dove 'raccontano', 'narrano', ricordano, inventano. Forse la lingua materna trova il grado più alto di verità proprio là dove con la voce dice, racconta favole (2).
   Per questo la poesia epica, la lingua di Omero prima d'ogni trascrizione, la lingua di Esiodo e degli innumerevoli aedi e cantori che la portavano a voce nei mercati, nelle piazze e nelle 'aule' è una lingua che si può dire memore della potenza materna: unisce mito è realtà, pensiero e fatto, leggenda e storia, ipotesi ed evento. Fonde gli opposti di intuito e ragione, come sempre è all'inizio, come sempre fa la vera poesia. (3)
   Ma, appresa la seconda lingua, la lingua dell'alfabeto, quella che s'impara a scuola, che ne è della potenza materna? Alcuni tra i filosofi, scrive Luisa Muraro, hanno trovato la capacità di "non affidarsi totalmente al lavoro intellettuale, e di saper dare ascolto alla positività originaria dell'essere... Io collego questa capacità alla potenza materna. Lo scopo dei filosofi non è di darle la parola: la kantiana 'cosa in sé' è il cenotafio della madre, la sua tomba vuota." (pag 22). "Invertendo l'ordine dell'operazione compiuta, hanno presentato l'opera materna come una copia (e non di rado una brutta copia della propria)". (ibid. pag. 20).
   Forse quel che vale per i filosofi vale anche per i poeti.
   Anche se non è così evidente, c'è una svalutazione della potenza materna in atto. Eppure, secondo Luisa Muraro, le più alte vette del pensiero e della poesia sono state raggiunte proprio là dove simbolicamente, fantasticamente, umanamente si è tornati "a farsi istruire dalla madre."
   Vero è che il padre per tutta la vita detta legge e lo fa attraverso quella che è pur sempre una evoluzione, o svalutazione, della lingua materna. In nome di questa svalutazione in atto, vero è che in una società come la nostra si è curato, sì, l'amore tra madre e figlio come valore da salvare. Ma vero è che l'amata madre è amata come muta, e che una figlia non sempre vuole ammutolire come lei, e spesso deve imparare, a sue spese, a ritornare alla lingua materna e a riamare la madre, dopo averla in qualche modo detestata.
   Vero è, come ci insegna Luce Irigaray, che il linguaggio non è mai neutro, anzi volge al maschile. Così nel definire filosoficamente l'"Uomo", come categoria generale degli esseri umani, in quell'uomo si include anche la donna e non sempre ci si accorge che è sbagliato. Vero è che alle donne, dacché possono parlare, è toccato parlare un linguaggio che le esclude.
   A mia volta, in una sorta di continuità che non vuole lasciar cadere le idee, ma passa parola e va avanti, riporto la versione poetica di Muriel Rukeyser che reinterpreta il mito di Edipo (4): si trova in esergo al capitolo "Edipo sbaglia due volte" nel bel libro di Adriana Cavarero Tu che mi guardi, tu che mi racconti (ediz. Feltrinelli).
   Riporto qui sotto il testo della breve versione poetica:

   Molto tempo dopo, vecchio e cieco, camminando per le strade, Edipo sentì un odore familiare: era la Sfinge. Edipo disse: "Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?". Avevi dato la risposta sbagliata", disse la Sfinge. "Ma fu proprio la mia risposta a rendere possibile ogni cosa". "No", disse lei. "Quando ti domandai cosa cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzo giorno e con tre alla sera, tu rispondesti l'Uomo". Delle donne non facesti menzione. "Quando si dice l'Uomo" disse Edipo "si includono anche le donne. Questo lo sanno tutti". "Questo lo pensi tu" disse la sfinge.

   Certo le donne incluse ne "l'Uomo" a volte si confondono, e, come è stato per l'Edipo di Muriel Rukeyser, si può fare un po' fatica a riconoscerle. A tratti diventano quasi invisibili. Anche chi scrive non riesce del tutto a sottrarsi alla confusione. Ma c'è in atto la ricerca di una lingua che già da questo scrivere mobilita, senza patemi si interroga, cerca quel che occorre.

Note

- L'ordine simbolico della madre di Luisa Muraro. Editori Riuniti, Roma 1992.
- Ho cercato di focalizzare il mio punto di vista su L'aspetto orale della poesia, una raccolta di scritti note e appunti, edito da Anterem, Verona 2000.
- Muriel Rukeyser, Mith in the Collected poems, Mc Graw-Hill, New York 1978, pag.498.
- Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 1997.


 
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